Sono ormai alcuni decenni che le classi tradizionalmente intese si sono liquefatte. Le classiche distinzioni così come l’espressione di voto corrispondente alla classe di appartenenza si sono sfaldate. Un fenomeno certamente determinato dai cambiamenti dell’economia reale nonché del mondo del lavoro, ma principalmente frutto di un cambiamento culturale e di una mutazione antropologica in atto da troppo tempo. Qualcuno ai suoi esordi, già nella metà degli anni Settanta, la chiamò “omologazione”, ma da allora siamo andati molto avanti. Ciò che è andato affermandosi è una cultura di massa, liquida e mobile (nel senso che può mutare direzione e orientamenti molto velocemente) che ha pervaso di sé ogni residuo ceto sociale in corrispondenza con l’uniformarsi in basso di quelle che una volta erano la classe operaia, il ceto medio (basso e alto), il sottoproletariato, lasciando da parte solo un esiguo numero di privilegiati, caratterizzati da un censo elevato e capaci di costruirsi un universo di valori autonomo, talvolta più ricco ed elaborato, spesso più volgare di quello del cosiddetto “popolino”.
È l’effetto incarnato di una cultura di massa che mescola tutto e l’incontrario di tutto in mancanza di un universo di valori di riferimento, (meglio di una mescolanza gassossa di tutti i valori), una cultura che rimpinza le pance del popolo e che si fa summa nei suoi massimi esponenti: i capipopolo.
Di fatto a sfuggire al complesso ordine culturale che domina il nostro mondo, sono davvero in pochi e non necessariamente appartenenti ad un gruppo sociale coeso e definito.
Il ritorno in auge della parola “popolo”, con tutta la sua genericità e anche pericolosità, si deve in buona parte a questa trasformazione che è insieme economica, culturale e antropologica: benestante o poveraccio, ricco o nullatenente, sei comunque parte di un popolo, forse soltanto perché sei la popolazione di una determinata nazione.
Il cielo culturale sotto il quale vivono i popoli e a cui credono i popoli è un complesso modello di comportamenti, valori, desideri, aspirazioni, bisogni, consumi che, non sembri semplicistico sottolinearlo, è stato generato, nutrito, alimentato, reso universale e, pur nella sua apparente contraddittorietà, reso compatto, come una seconda pelle di cui tutti siamo rivestiti, da decenni di medium che sono messaggi ( o meglio “massaggi”), di consumi indotti, di un universo di oggetti-simulacro che riempiono la nostra vita, la stravolgono, ne prendono possesso, fino a sostituirsi a noi stessi. L’uomo medio, per lo più ignaro, vive proiettato in questo cielo culturale, non distingue più terra e cielo, fluttua apparentemente libero, ma intimamente coatto, prigioniero di sentimenti, relazioni e comportamenti dettati, con persuasione sottile e occulta dai nuovi padroni del mondo.
Se si aggiunge l’apporto delle nuove tecnologie: la possibilità di essere altro da sé, nascondendosi dietro avatar o attribuendosi un nickname o al contrario esponendosi in una sorta di banale pornografia dei sentimenti (modello trasmissioni di Maria De Filippi) tra i profili di Facebook o peggio ancora rifugiandosi nell’onanistica frequentazione dei siti porno, il gioco è fatto: il popolo elettore è una massa d’individui che ha perso ogni sembianza umana, è un ingranaggio di un sistema che lo domina e lo macina, in mano a cinque multinazionali del web (Amazon, Google, Apple, Facebook, Microsoft) che poco alla volta si stanno comprando il mondo intero uniformandolo ai propri interessi. Così il mondo reale scompare e al suo posto s’insinua un mondo digitale, una realtà che promette facilità di scambi, velocità, immediatezza e anonimia (solo dichiarata perché nulla di quello che fai sul web sfugge all’occhio del grande fratello né, volendo, agli occhi maligni dei malintenzionati).
Ci sono generazioni che sono state a lungo allenate: gli alienati dell’era delle lucciole delle tv commerciali che oggi hanno superato i sessant’anni, i quarantenni e i trentenni che sono stati adolescenti o infanti negli anni Ottanta del glamour, dei cartoni animati, dell’ottimismo prepotente e del rampantismo cinico e opportunista, e hanno assorbito, anzi si sono costruiti (o meglio sono stati costruiti da quei modelli/valori).
E infine i millenials che nati nel nuovo mondo, non ne conoscono nessun altro, che di ciò che è venuto prima di loro non sanno e non vogliono sapere niente, che un libro di carta non sanno cosa sia, che il massimo che riescono a le leggere sono le 280 parole di un tweet.
Specie umane nuove, differenti, ma solidali, unite dal piacere dell’ignoranza, dal desiderio del denaro facile e dall’ammirazione per la prepotenza, capaci di allontanare da sé come arrogante chiunque in nome di un passato obsoleto e sconosciuto osa richiamarli a principi di solidarietà, di beni comuni, di socialità.
Ora è vero che l’arroganza al potere ha caratterizzato l’élite politiche che li hanno governati fino a ieri, ma ciò non basta a giustificare la rabbia, l’odio, la violenza non solo verbale con cui la nuova specie si scaglia in modo generico, contro tutti e contro tutto altro da sé.
Vivono nei sobborghi delle grandi città, nelle periferie, non necessariamente degradate, non sono necessariamente poveri, anzi sanno nascondere dietro ISEE falsificati proprietà e beni che sfuggono al fisco, non si sentono cittadini se non per rivendicare diritti su tutto, se a loro dire le banche li hanno defraudati, se la loro categoria è ignorata, se presenze straniere (rom o neri che siano) vengono accolte nei loro quartieri bunker. In nome del “prima gli italiani” sono pronti anche alla guerriglia e ai gesti più estremi.
Una volta erano la maggioranza silenziosa, benpensante, (piccola borghesia spaventata e menefreghista) che votava Dc o in minoranza MSI, in cuor suo nostalgica del si stava meglio quando si stava peggio, oggi è una massa vociante urlante, l’evidenza di una specie mutata, pronta a votare il primo tribuno della plebe di turno che sia l’androide Salvini, in tutto e per tutto uno di loro, o il prossimo purché parli il loro stesso linguaggio, li blandisca promettendogli paradisi mirabolanti, li assuma come un dato di fatto non necessitante di alcuna pedagogia.
Non ha importanza la loro provenienza di classe, oggi costituiscono davvero un popolo (nel senso promiscuo e confuso del termine (niente a che fare con il popolo del populismo dostojevskiano). Un popolo che per metafora definiamo androide (a segnare la differenza da noi sapiens miseri residuali e in via d’estinzione).