“Abbiamo invertito la rotta e navighiamo a ritroso. Il futuro è finito alla gogna e il passato è stato spostato tra i crediti, rivalutato, a torto o a ragione, come spazio in cui le speranze non sono ancora screditate. Sono gli anni della retrotopia.” (Zygmunt Bauman)
Zygmunt Bauman ci ha lasciato con un'illuminante intuizione: il concetto di retrotopia. Se l'utopia è lo slancio visionario verso un futuro sognato come risoluzione delle contraddizioni del presente, il desiderio-progetto di una società migliore, la retrotopia è, nell'età della paura, la nostalgia del passato, il rifugio nelle sicurezze consolidate di ieri.
È indubitabile che dobbiamo concordare con l'ultimo Bauman: il nostro presente è ammalato di “retrotopia”. Molte sono le cause, ma cominciamo dagli effetti. Il primo, il più chiassoso, è il cosiddetto “sovranismo”. Si strombazza: prima gli americani, prima gli italiani, prima … ciascun governo reclama il diritto al primato del suo popolo, rinascono sopiti orgogli nazionalistici, s'adombrano autarchie improbabili, i grandi fanno la voce grossa, i piccoli scimmiottano i grandi, si chiudono i confini, si erigono muri, sottotraccia serpeggiano ambigui pregiudizi razziali. L'altro, il diverso tornano ad essere considerati una minaccia quando non un vero e proprio nemico. In nome di un popolo che viene con prosopopea dichiarato sovrano, che tale non è mai stato nemmeno in passato se non nelle carte costituzionali, la politica delle destre (che oggi vanno per la maggiore), senza dichiararlo, proietta il passato sul futuro, sostituisce la fuga in avanti con il ritorno indietro.
Ma cos'è il sovranismo? Che s'intende per popolo sovrano? E soprattutto cosa è un “popolo”?
In sintesi, sovranismo secondo le definizioni correnti è quella posizione politica che propugna la difesa o la riconquista della sovranità nazionale da parte di un popolo o di uno Stato, in antitesi alle dinamiche della globalizzazione e in contrapposizione alle politiche sovrannazionali di concertazione.
Secondo Bauman questa è una tipica risposta retropica. Di fronte alla prospettiva negativa inaugurata dagli sviluppi contradditori del globalismo, carichi di ingiustizia sociale e di disuguaglianze, piuttosto che elaborare un superamento in avanti, si preferisce volgersi indietro e proporre una restaurazione di ciò che c'era prima: lo stato nazionale, dichiarato “sovrano”. Come se la storia (che si fa da sola, pur se con il concorso degli uomini, oggi sempre più sostituiti dagli algoritmi) non procedesse per salti, superando dialetticamente il presente, avviando il futuro e relegando l'oggi negli archivi del passato. La velleità antistorica dei “sovranisti”, spinta dalla nostalgia, vorrebbe negare il presente, impedire un futuro temuto come peggiorativo, imporre il ritorno al passato prossimo. Ma non fa i conti da un lato con la realtà dei fatti: il passato che evoca non è mai stato così roseo come lo dipinge; dall'altro con il concreto peso delle forze in campo: sottovaluta l'oggettiva potenza della “struttura” economico-politica che regge il mondo, sempre più anonima e disseminata, camaleontica ed efficiente, una testuggine avanzante oltre ogni resistenza. I sovranisti possono avere la meglio in un frangente breve del corso della storia attuale, ma sono destinati ad essere travolti dallo tsunami strutturale del capitalismo globale. Con il risultato che il futuro sarà alla fine davvero il peggiore possibile.
Al contrario, l'utopia non è mai stata nell'ordine delle cose. Appannaggio di esigue minoranze, frutto dei sogni di poeti e filosofi, è per definizione fuori di ogni dialettica storica. Anzi supera la dialettica, la abolisce, prefigurando un luogo dove le contraddizioni sono pacificate. L’utopia è frutto del potere dell’immaginazione; anche quando l’utopista è meticoloso nelle sue descrizioni dello stato e della società ideale, resta al di fuori della storia per statuto, ed è proprio questa la garanzia che la sua utopia avrà conseguenze nella prassi. Non dirette applicazioni, ma linfa e nutrimento delle azioni rivoluzionarie. La retrotopia ha invece come fondamento l’apparente solidità dello status quo del passato, del com’era, ma la sua applicazione nella realtà, non sopprime la dialettica, anzi la ripropone e, in un mondo inevitabilmente globale e globalizzato, prima o poi le sue ricette sono destinate alla sconfitta e al superamento. In definitiva si dimostra non realistica.
E poi, il passato rimpianto conteneva altre contraddizioni altrettanto laceranti che ritornano in auge una volta restaurato. Non esistono nella storia delle società umane epoche felici la cui ricostituzione, ammesso che sia possibile in condizioni strutturali mutate, garantisca una vita migliore del presente. La forma-nazione e il modello della comunità tribale, con il correlato della sovranità territoriale e della netta separazione tra “noi” e“loro”, come segnala Bauman, hanno storicamente prodotto solo guerre e discriminazioni.
Per esempio, l’attuale reazione isterica e di rigetto dell’Occidente di fronte all’onda migratoria in atto, trova i suoi fondamenti proprio in quel passato che si vorrebbe far tornare, in quella feroce distinzione tra noi e loro. Ritornando alla tribale sovranità nazionale-territoriale di ieri, le migrazioni non terminerebbero, poiché sono un portato inevitabile del processo storico, forse sarebbero affrontate armi alla mano alla stregua di un’invasione nemica. Ma quale che sia la temporanea inversione di rotta imposta dai neo-sovranisti, l’effetto sarebbe solo un piccolo intralcio all’oggettività del processo storico, un rinvio di ciò che inevitabilmente dovrà accadere.
Eh già, perché qui bisogna ridefinire il ruolo dell’uomo, dei popoli, delle élite politiche rispetto al modo di procedere dell’evoluzione storica. Del marxiano “gli uomini fanno la storia… nelle circostanze che trovano immediatamente davanti a sé, determinate dai fatti e dalla tradizione” dobbiamo conservare solo l’aspetto volontaristico, aggiungendo l’inconsapevolezza del modus operandi umano. Gli uomini fanno la storia e non solo non sanno di farla, ma, sempre più frequentemente nella complessità delle società di massa globalizzate dell’oggi, “sono fatti” dalla storia, laddove la storia non è il fato-destino del mondo classico, il progetto escatologico che sovrasta le volontà umane, ma un disseminato, complesso e stratificato “disegno” che si fa attraverso il sovrapporsi e l’intrecciarsi di milioni di azioni, spesso non coordinate, quando non in conflitto tra loro, che si generano in ogni angolo del mondo, spogliate dell’identità dei loro autori, nella vita quotidiana, nelle politiche dei governi, nelle logiche dei mercati, nei territori della ricerca scientifica… Nessuno possiede la consapevolezza e soprattutto la certezza della capacità di incidenza delle proprie azioni, tutti sanno di essere ingranaggi di una macchina estesa quanto l’intero globo; nessuno può pretendere di governare quella macchina, che per definizione e struttura è sfuggente ed inafferrabile. La neo-oggettività assunta dal processo storico contemporaneo, mentre confina le utopie nei territori del fantastico letterario, smonta le velleità volontaristiche delle retrotopie, spacciate per realistiche perché si appellano alla solidità fattuale del già accaduto, ne ridimensiona le potenzialità e gli effetti in quanto effimeri e transitori.
La presunzione demagogica e ignorante dei “sovranisti” naturalmente passa allegramente sopra questa verità epistemologica ed è certa che vinta una battaglia presto sarà vinta anche la guerra, ma la guerra è infinita e permanente. Nella nuova situazione non ci sono più un alto e un basso da contrapporre, c’è piuttosto una “terra di mezzo”, anzi un “mare di mezzo”, quell’oggettività del processo storico immodificabile se non in una concertazione globale (allo stato attuale impossibile). Un mare in cui tutti naufraghiamo, avendo perso la bussola e la rotta, trascinati da venti e correnti che non controlliamo e cui non sappiamo nemmeno dare un nome.
Così i nemici individuati, i potenti che soffocherebbero le sovranità nazionali (le troike, i poteri occulti che regolano i mercati, le banche centrali sovranazionali…) non sono idoli che stanno in “alto”, da rovesciare per restituire il potere ai popoli iniquamente usurpati, ma sono finti naufraghi, dotati di salvagente al contrario degli altri, nuotano insieme a noi, confusi e mimetizzati. Le loro parole, le loro azioni fanno più rumore, suscitano un’eco più prolungata, ma non hanno il potere di cambiare l’ordine della storia, tanto quanto la parola dell’ultimo dei diseredati, semplicemente garantiscono loro sopravvivenza e arricchimento.
I sovranisti alla fine appaiono come Don Chisciotte, privi della poesia di Cervantes, alle prese con nuovi mulini a vento, convinti di vivere nell’universo dei valori dicotomici della Cavalleria, in un’epoca già dominata dagli abitanti del “borgo” e dalle nuove pratiche economiche. E se ciò non bastasse, anche le nozioni associate di “popolo” e di “sovranità” che proclamano come fondamento delle loro rivendicazioni, sono fallaci, approssimative, al punto da rivelare una non esplicitata volontà manipolatoria.
Il popolo nella definizione del vocabolario è: “il complesso degli individui di uno stesso paese che, avendo origine, lingua, tradizioni religiose e culturali, istituti, leggi e ordinamenti comuni, sono costituiti in collettività etnica e nazionale, o formano comunque una nazione, indipendentemente dal fatto che l'unità e l'indipendenza politica siano state realizzate.” Nella terminologia giuridica, poi, per popolo s’intende l’insieme di individui cui sono attribuiti i diritti di cittadinanza nello stato. Infine, la Costituzione italiana (art. 1) afferma che la sovranità appartiene al popolo (tutti i cittadini, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali) che non la esercita direttamente (se non nell’istituto del referendum), ma indirettamente attraverso quegli organi cui la Costituzione stessa attribuisce la rappresentanza.
Fuori del vocabolario e delle costituzioni, storicamente, popolo è una parola sospetta, utilizzata proditoriamente da singoli dittatori o ristrette oligarchie per giustificare la presa del potere.
Esistono (forse esistevano) le classi, i ceti, i gruppi sociali, le categorie di lavoratori, i soggetti che si costituiscono aggregandosi in nome di comuni interessi, bisogni, rivendicazioni di diritti ecc., esistono soprattutto gli individui, dotati di una soggettività comune e per ciascuno differente, che si muovono talvolta convergendo verso un’unica direzione, più spesso divergendo nel caos di bisogni e desideri inculcati e incontrollabili. Popolo è un’astrazione, vuol dire tutto e non vuol dire niente. Il popolo, i popoli non esistono, ciò che oggi lega o pone in conflitto gli individui trascende l’idea di nazione, lingua, religione e persino di etnia.
Usato come formula retorica nei pronunciamenti dei sovranisti, detti anche per questo populisti, (in Italia per es.: “l’avvocato del popolo”, “il governo del popolo”, “la manovra del popolo”, “è il popolo che ce lo chiede”) il popolo in verità assume connotati ben diversi da quelli del vocabolario. L’operazione implicitamente compiuta è la riduzione di una moltitudine di individui, ad un unico individuo (il Popolo, con la maiuscola) astratto e indifferenziato che ha abolito ogni diversità sociale, culturale, di bisogni e di meriti, che si esprime con una sola voce, quella del sovranista di turno. Un individuo egotista e narcisista, insofferente, ribelle, indignato e colmo di rabbia che reclama il ritorno indietro come unica prospettiva storica, che rigetta l’intrusione degli altri (i “loro”) e si raccoglie nelle certezze del “noi-io”. Un soggetto che non esiste nella realtà, inventato e tratteggiato ad immagine e somiglianza del demiurgo-demagogo che l’ha posto in cima alla scala sociale. Di fatto, quando prende corpo questo “popolo-individuo” assume l’aspetto e la voce della cerchia stretta di seguaci del sovranista: nei blog, nella catena di tweet che si accavallano quotidianamente, in quel coro ad una sola voce che s’assomiglia nel migliore dei casi ai fan di una popstar e nel peggiore agli ultrà di una squadra di calcio. Entrambi si muovono come un corpo unico, urlano e minacciano all’unisono. Il populista, con atto mistificatorio, li assume a paradigma, assegna loro il compito di esprimere il sentiment generale, si fa interprete dei bisogni di questo popolo escluso da ogni potere e in suo nome avanza camminando all’indietro contro quel globalismo che soverchia ogni sovranità. Insomma una forzatura ideologica che nega le diversità sociali, abolisce la dialettica maggioranza/minoranza, e riduce la complessità plurale dei bisogni-desideri delle soggettività individuali a pochi slogan imposti come propri dall’uno-tutto costituito dal popolo-individuo.
E infine la sovranità, la condizione di chi sta sopra. Una parola antica rimodulata in epoca moderna, ma che nonostante il suo trasferimento al “popolo” conserva l’eco dell’ancien regime, dal momento che riproduce anche nelle sue nuove applicazioni la contrapposizione tra un sopra e un sotto, presuppone una sudditanza, prolunga l’aura del “sovrano-monarca” anche nel nuovo tempo, tanto più che, come abbiamo visto, la nozione di popolo sin dalle origini risulta un’astrazione, una parola passe-partout utilizzabile indifferentemente nei contesti più disparati.
Fingiamo tuttavia di credere a Rousseau e giù di seguito alle Costituzioni dei paesi cosiddetti democratici modellate sui principi delle rivoluzioni americana e francese, e chiediamoci in cosa si esprime oggi concretamente la sovranità del popolo?
Al di là di qualche esperimento di democrazia diretta (tipo Svizzera) o dei referendum (previsti in tutte le costituzioni democratiche) il popolo esercita la sua sovranità attraverso il voto, in particolare eleggendo le sue rappresentanze politiche che in suo nome governeranno promulgando e applicando le leggi. Ebbene possiamo affermare che questo voto sia mai stato libero, indipendente e consapevole? E soprattutto possiamo sostenere che lo sia oggi? Le domande sono retoriche, la risposta è evidentemente no. Troppi fattori nel corso della storia dalla progressiva introduzione del suffragio universale sono intervenuti a condizionare, orientare, manipolare il voto popolare, ieri come oggi. Primo fra tutti l’ignoranza, un analfabetismo politico, una mancanza di coscienza (non tanto di classe, quanto dei propri bisogni) che scontato in partenza avrebbe dovuto regredire fino alla scomparsa man mano che l’istituzione scolastica progrediva in tutti gli Stati, e invece si è confermata, magari nelle forme più subdole e sofisticate del tempo presente. Il voto popolare ha la stessa casualità, lo stesso azzardo di un colpo di dadi. Può manifestarsi tracciando una ics ora su un simbolo ora su un altro a seconda di come la doxa orienta il vento: si vota per sentito dire, per rabbia, per qualche torto personale ricevuto, per un’aspirazione frustrata. Il voto per appartenenza ideologica in auge fino a qualche decennio fa è stato un alibi, già allora copriva l’inconsapevolezza di fondo: era più facile dire: voto comunista, voto fascista, voto democristiano perché mi riconosco, aderisco (faccio il tifo) in quell’idea generale indipendentemente dai programmi. Le maggioranze, ieri silenziose, oggi cinguettanti, quando non urlanti, si radicalizzano. Da complici e solidali con i propri rappresentanti, si aggregano condividendo un senso di esclusione che non ha nulla a che vedere con la effettiva marginalizzazione e pauperizzazione, ma piuttosto con la frustrazione delle promesse di benessere disattese e di libero accesso al consumo vistoso interrotto. Abbandonano l’abitudine al voto moderato, in parte retrocedono nell’indifferenza disillusa di chi diserta le urne, in parte si affidano alle parole d’ordine più arrabbiate e più semplici da comprendere dei movimenti sovranisti e populisti.
Del resto, oggi nella società del consumismo spinto, la sovranità si esercita altrove, non nel seggio elettorale, ma nei labirinti degli ipermercati, nei camerini degli outlet; gli opinion leader, i veri manipolatori del consenso non sono i politici, ma i media e non tanto nella loro espressione di mezzi d’informazione, quanto in quella legata all’intrattenimento; è soprattutto la pubblicità, levatrice perenne di sogni e promesse, il motore dell’alfabetizzazione di massa. Così analfabetismo di ritorno e neo-alfabetizzazione si mescolano e quello che resta del voto e della sovranità popolare si svuota di senso e sostanza. Che il popolo (in questo caso da intendersi come moltitudine) sia sovrano ed eserciti coscientemente la sua sovranità, è una chimera, uno slogan utile ai demagoghi per giustificare ogni propria decisione (“il popolo è dalla mia parte”), tutt’altro che un fatto storico comprovato. Uno perché il popolo non esiste, due perché anche se esistesse sarebbe la minoranza di una minoranza, e tre perché la sovranità è una menzogna, un imbroglio perpetrato proprio ai danni di quel “popolo” tanto decantato.