I parte: Quadro generale
1. L’impero della pubblicità, il dominio del consumoNessuno di noi, quale che sia la sua volontà, la sua intelligenza, il livello delle sue conoscenze, è in grado di sottrarsi all’assedio della pubblicità e ai morsi della fame di consumo. Ognuno ha il suo punto debole. Per ognuno, anche il più snob o il più ribelle, c’è una fascia di prodotti a lui dedicata. È singolare come nella sua anonimia indifferente alle soggettività, la nostra società abbia previsto un mercato assai specializzato.
Possiamo chiudere gli occhi davanti alla pubblicità in televisione, al cinema, in strada, voltare il capo, sintonizzarci su un’altra onda o canale, ma nulla ci garantisce l’impermeabilità. È noto ormai da più di un secolo, la macchina complessa pubblicità/consumo ha strumenti tecnologici e psicologici sofisticati, sa come raggiungere, affascinare e catturare l’intimo di ogni essere vivente.
Non abbiamo molte armi per difenderci, ma una è certamente “il sapere”. Di più conoscenze disponiamo e meglio siamo in grado, a posteriori beninteso, di smontare i castelli e i miraggi della società dei consumi. Ahimè, l’estensione epocale e globale – in opera già dalla modernità - della “volontà di sapere”, con il conseguente mutamento delle relative tecniche di potere e dominio, dalle forme repressive, a quelle pervasive, produttive, non ha di pari grado accresciuto e stimolato il “desiderio di sapere” da parte degli individui, anzi lo ha fatto regredire con un movimento inversamente proporzionale. Più il sapere ha inglobato nuovi territori (fino alla sessualità, secondo la prospettiva foucaultiana), più il potere corrispondente si è fatto costruttore di corpi, leviatano di esseri viventi e meno masse di individui sociali hanno percepito il bisogno/desiderio di armarsi di un sapere proprio, un contro-sapere, di un anti-corpo per respingere l’invasione virale del sapere-potere degli agenti del dominio planetario: i produttori di merci-beni di consumo, con i loro corollari pubblicitari ramificati in tutti i corpi sociali, reali e virtuali.
L’accoppiata potere-sapere, a livello del macrorganismo socio-economico-politico funziona senza mostrare il suo volto, le facce di cui si serve sono affittate a celebrità o all’opposto raccolte tra i volti comuni. Ciò illude che tutto sia naturale, che non ci sia l’interesse di qualcuno dietro il lussureggiante apparire del mercato, che non esista un vertice, invisibile ma di carne e ossa (fatto da individui concreti), e che tutto avvenga in una relazione orizzontale tra consumatori e beni (sostantivati e dotati quasi di un’autonoma identità autoproduttiva). Il marchio, il brand contano, certo, ma sono simulacri vuoti, non rinviano ad un “padrone”, brillano di luce propria. L’individuo, non dotato di un sapere, di un sistema di conoscenze adeguato alla situazione di pressione nella quale vive, è impotente, non oppone resistenza, anzi al contrario si lascia piacevolmente invadere, in permanente orgasmo nell’amplesso che, fondendolo con i suoi oggetti del desiderio, lentamente – senza che se ne accorga – lo esautora, lo sfinisce e lo uccide poiché per sopravvivere ha bisogno più del permanere della sua insoddisfazione che di rispondere in pieno ai propri bisogni.
2. La necessità di sapere. Il popolo è ignorante
Se vogliamo dunque salvarci dalla “dolce morte” per consumo, alla “volontà di sapere” del Sistema-Macchina dobbiamo contrapporre un altro sapere, un apparato di conoscenze capace di de-costruire teoricamente e de-condizionare praticamente. Ciascuno deve suscitare in sé quella “necessità di sapere”, che costituisce l’unico segno distintivo di umanità.
Il problema è proprio questo: mai come oggi questa “necessità” è stata così lontana dal cuore e dai pensieri degli uomini. Forse si ritiene di sapere abbastanza, o che ci siano cose più importanti nella vita (possedere, avere, persino essere ma solo se coniugato con i due verbi precedenti), forse si crede che tutto il sapere consista nel “savoir faire”, nello stile di vita e nell’applicazione delle istruzioni per l’uso allegate ai beni-merci, sta di fatto che l’individuo è ignorante, i popoli sono ignoranti, nel senso letterale e comune del termine e non socratico: ignora, ignorano ovvero non sanno, non hanno conoscenze, non ne sentono il bisogno.
Basta scivolare da un quiz televisivo all’altro, farsi scorrere tra occhi e orecchie un reality, un talk show, qualche intervista per strada, insinuarsi nella vita reale nel chiacchiericcio quotidiano dei luoghi d’incontro più frequentati, per accorgersi di quanta “ignoranza” sia in circolazione: dai più elementari rudimenti di grammatica, sintassi, lessico, alle nozioni più generali di storia, geografia, scienze, fino – ai livelli più alti - alla capacità stessa di elaborare pensieri propri, un punto di vista originale, una riflessione un minimo approfondita su un qualsiasi argomento.
Il popolo ignora non solo chi governa il mondo, ma addirittura di essere governato, cioè che qualcuno (?) abbia il potere di gestire la libertà di tutti gli altri, limitandola o ampliandola per il proprio interesse, determinando bisogni e desideri, comportamenti, gusti, opinioni e passioni.
Il popolo ignora che questo qualcuno non è un re, un dittatore, un parlamento democratico, un partito, ma è un’entità complessa, una “cosa” che nasconde i suoi nomi e si rende invisibile, una rete mobile dispersa attraverso mille nodi, con i suoi centri nevralgici disseminati e ben occultati in una foresta virtuale di simboli. Una macchina desiderante che attrae le sue vittime e le divora nella cieca brama di accrescere la propria ricchezza.
La macchina del potere, al contrario, sa e vuole sapere sempre di più, conosce ogni minimo dettaglio delle sue prede perché le fabbrica, le svuota e le riempie a suo piacimento. Essa lavora al solo scopo di autoriprodursi e di accrescersi, non esercita alcuna forza coercitiva, non dispone di alcuna ambizione di dominio, non ha bisogno di gratificazioni narcisistiche derivanti dalla sua posizione apicale, è un potere vuoto, la cui apparenza vistosa, quando c’è, è soltanto spreco distratto, non rinviando all’esibizione di una potenza.
La macchina del potere ha un solo scopo: accumulare ricchezza.
Se si guarda a chi oggi davvero governa il mondo e gli uomini: un gruppo sparuto di multi-sovranazionali, tre/quattro grandi banche d’affari, un pugno di centrali finanziarie, i cosiddetti “giganti del web”, se si riesce a cogliere il profilo biografico, persino dei loro fondatori, quando visibili e rintracciabili, ci si accorge che il movente non ha nulla a che vedere con l’ambizione che muove i Macbeth nel dramma scespiriano, ma è semplice e banale: fare soldi. Una gigantesca, multiforme e diffusa slot-machine, con filiali e appendici in tutto il pianeta, che succhia soldi e restituisce pochi spiccioli ogni tanto, mentre irretisce nella sua assordante frenesia chiunque le si avvicini, trasformando il mondo intero in una chiassosa Las Vegas dove il gioco è al massacro.
3. La formazione dell’individuo e il processo educativo
Non c’è altro da fare: se si vuole sopravvivere al massacro quotidiano è necessario costruirsi un patrimonio di conoscenze da contrapporre alla macchina sapere-potere. Di nuovo torna in primo piano il ruolo dell’educazione, del processo di inculturazione, la questione della formazione dell’individuo. Il popolo deve sapere e per sapere deve studiare e lo studio (alla latina) deve essere passione che ferisce, che incide nella carne, che al corpo svuotato dalla macchina del potere-sapere sostituisce un nuovo corpo sensibile, dove il circuito pulsione/ intenzione, percezione/consapevolezza è ristabilito, un corpo che dell’esperienza sa fare conoscenza.
Occorre un sapere profondo nel quale soma e psiche tornino ad essere in stretta connessione, nel quale l’intenzione più che un orientamento della coscienza sia l’anello di congiunzione tra la spinta della pulsione organica, la reazione della coscienza e il compimento dell’azione. Un sapere nel quale la coscienza, scrostata dai sedimenti delle imposizioni morali, sia consapevolezza (percezione derivata da uno stato di attenzione che si tramuta in conoscenza). Perché educare è “condurre fuori”, non dai difetti e dai limiti naturali come suggerirebbe l’etimologia, ma dai condizionamenti e dalle costruzioni culturali; è ricondurre in orizzonte “naturale” per quanto possibile. Non l’integrazione omologante deve essere il fine del doppio binario educazione/inculturazione, ma la differenziazione dialogante: sola garanzia di una riconsegna all’individuo di una ricchezza interiore.
II parte: che fare
4. La scuola, pubblica e obbligatoria, veicolo prioritarioIl veicolo di questo processo articolato e complesso, al di là degli istituti sociali naturali (la famiglia, l’ambiente, il clan, la nazione), è la scuola, ovvero quello spazio-tempo dove il sapere, le conoscenze sono oggetto di studium, dove apprendendo, non un mestiere ma ad essere e a vivere, crescono e si formano le soggettività individuali.
Oggi, ovunque, la scuola, quella pubblica in primis, sopravvive screditata, povera di mezzi e risorse, confinata in vetusti e decadenti edifici, sprovvista nella maggioranza dei casi di una classe insegnante all’altezza del ruolo, oberata di ordinamenti antiquati e farraginosi, impedita nella sua efficacia da modelli formativi fuorvianti legati al qui ed ora e sganciati da ogni visione prospettica.
C’è dunque un lungo lavoro da fare. Ma chi deve farlo? Sperare in una riforma/rivoluzione che venga dal vertice (dai governi) equivale ad un suicidio. Anzi c’è d’augurarsi che chiunque governi (considerata l’incompetenza e l’inaffidabilità del ceto politico) non metta mano ad alcun processo riformatore. In Italia per esempio, negli ultimi trent’anni non c’è stato governo che non abbia provveduto a far approvare una propria legge di riforma, con il risultato dell’acuirsi della crisi dell’istituzione scolastica e con il perdurare della sua progressiva obsolescenza. Senza contare che ogni riforma proposta ha sempre prima badato alle questioni economico-sindacali: inquadramento degli insegnanti, graduatorie, precari, stipendi ecc., e solo in seconda istanza s’è occupata del percorso didattico-pedagogico, del curriculum di studio, degli assetti formativi, di una ridefinizione di programmi e discipline, dei concreti processi di trasmissione/apprendimento, lasciando dunque l’area contenutistica al caso, alla buona volontà di presidi, docenti e studenti, a singole proposte e circolari decontestualizzate e spesso orientate in senso contrario al rafforzamento della funzione pedagogica della scuola.
5. Il Sapere, i Saperi. Umanesimo e pensiero tecno-scientifico
Il Sapere cresce mentre la storia avanza, le letterature si gonfiano, le scoperte scientifiche, le innovazioni tecnologiche fanno progressi, ogni branca delle conoscenze acquista un volume insostenibile e inesauribile nell’arco del curriculum scolastico così com’è. Non si può tagliare il passato, ma neanche tralasciare il presente, e non si può evitare di guardare al futuro. D’altra parte i Saperi si specializzano, si differenziano, si moltiplicano; nella postmodernità due episteme si contrappongono: quella legata alla cultura umanistica (alle belle lettere, alla filosofia…) proveniente dalla tradizione e affermatasi agli albori della modernità e quella connessa col pensiero tecno-scientifico impostasi nella seconda metà dell’epoca moderna e divenuta dominante nel nostro tempo. Difronte all’accumulo di sapere e alla differenziazione/contrapposizione non è possibile mantenere lo status quo, si rende necessario un cambiamento radicale: L’abbandono definitivo di qualsiasi forma di nozionismo per esempio (un’antica battaglia del sessantotto, rimasta ancora in sospeso), a favore di una riorganizzazione ragionata e non bizzarra dei piani di studio, materia per materia, lavorando sulla sincronia selettiva, tematica (beninteso contestualizzata) piuttosto che sulle cronologie; l’allestimento di forme di studio, di lezione, di relazione didattica, di modi di ricerca individuale e di gruppo specifiche, elastiche e mobili legate alla natura dell’oggetto dell’apprendimento (non va dismessa la lezione frontale che, quando il docente è in grado di generare “ascolto”, ha sempre la sua efficacia maieutica, ma va affiancata dal laboratorio, dall’esercizio pratico della ricerca sui testi e sul campo ecc.); l’integrazione (non suppletiva né riduttivamente ricreativa) in ogni scuola di qualsiasi ordine e grado del dipartimento artistico a struttura laboratoriale (arti figurative e plastiche, musica, cinema, teatro…); l’aggiornamento dei criteri di valutazione uscendo dall’asfittica e finta dialettica voto/giudizio, esame/test e dalle elucubrazioni sull’alchimia sempre in mutamento e mai codificata dell’esame finale, tornando a rimettere al primo posto la relazione docente/discente come unico criterio per un buon apprendimento e un buon insegnamento.
Sono solo esempi, tematiche consistenti, percorsi sperimentabili che l’autonomia scolastica dei singoli istituti, di gruppi di istituti che si riconoscono simili, dovrebbe stimolare e provare ad avviare, prescindendo da qualsiasi atto riformatore proveniente dall’alto.
E infine, due argomenti non secondari, ma dirimenti: la relazione scuola-lavoro e l’orientamento epistemologico generale del processo educativo, ovvero quale rapporto tra una formazione umanistica e una tecnico-scientifica?
Comincio citando un recente appello per la scuola pubblica diramato da un gruppo di insegnanti:
“Non si va a scuola semplicemente per trovare un lavoro, non si frequenta un percorso di istruzione solo per prepararsi ad una professione. Dal liceo del centro storico al professionale di estrema periferia, la scuola era e deve restare, per primo, un “luogo potenziale” in cui immaginare destini e traiettorie individuali, rimettere in discussione certezze, diventare qualcos’altro dalla somma di “tagliandi di competenza” accumulati e certificati. L’apertura alla realtà sociale e produttiva può realizzarsi, volontariamente, attraverso forme e progetti di scambio organizzati autonomamente dagli istituti scolastici.”
Lo sottoscrivo e aggiungo che l’ansia/ossessione, oggi assai diffusa a causa della crisi, del lavoro al termine del corso di studi inquina i reali compiti educativi della scuola e rovescia il rapporto, dal momento che dovrebbe essere il lavoro a visitare la scuola e ad interessarsi ed occuparsi della formazione dei futuri lavoratori, entrando nel dialogo pedagogico, senza farlo deviare in direzione di logiche puramente tecnicistiche e professionali. Del resto anche le attuali distinzioni, a livello d’istruzione secondaria, tra licei, istituti tecnici e professionali andrebbero ripensate e rimodulate evitando le nette separazioni, l’eccesso di specializzazione e il conseguente sbilanciamento delle proporzioni nel rilievo dei programmi e nel ruolo delle discipline insegnate.
Quest’ultima considerazione ci getta nel secondo argomento da cui inevitabilmente il rapporto scuola - lavoro dipende: la contrapposizione tra formazione umanistica e formazione tecnico-scientifica.
Chi continua a privilegiare l’una o l’altra, in nome di un passato glorioso o al contrario di un futuro radioso, commette peccato; una scelta di parte nega la storia e la realtà delle cose. Non c’è opposizione tra i due modelli culturali, ma continuità e incessante travaso di forme e contenuti. Tutta la storia del pensiero filosofico, delle letterature e del pensiero scientifico lo dimostra. Non c’è filosofia (sin dagli albori) che non si appoggi su verità di fatto, su qualche fondamento scientifico, che non si coniughi con la logica matematica, così come non c’è scienza, né rivoluzione scientifica che possa fare a meno dell’immaginazione, che non si racconti come un’“arte”, prendendo a prestito metafore dalla letteratura. Personaggi come i presocratici, Dante, Leonardo da Vinci, Galileo, Einstein e tanti altri sono lì a testimoniare come i due orizzonti, i due percorsi si nutrano l’uno dell’altro. Emisfero destro e emisfero sinistro convivono nello stesso cervello, possono andare in conflitto, fare cortocircuito talvolta, ma non possono ignorarsi, elaborano in maniera indipendente, ma sono complementari, sono specializzati ma condividono e si integrano. La creatività, centrale sia nel pensiero umanistico che in quello scientifico, si deve alla collaborazione efficace tra i due emisferi. Allora perché creare compartimenti stagni nei percorsi educativi, perché separare, perché contrapporre? Non avremo mai un buon ingegnere senza intuizioni e poesia, e nemmeno un buon poeta senza calcolo e abilità ordinative. E soprattutto abbiamo bisogno dell’uno e dell’altro, magari conviventi nella stessa persona.
6. L’insegnante intellettuale e il mistero della relazione educativa
La relazione insegnante/studente (che nel suo dover essere aspira a rifondarsi come relazione maestro/allievo) è dunque il centro di ogni processo formativo e di trasmissione del sapere/saperi. Da essa bisogna ripartire per suscitare la salvifica “necessità” di conoscenza.
L’insegnante è un intellettuale, direi “organico” (non quello gramsciano miseramente e parodisticamente finito nei panni del corvo pasoliniano di “Uccellacci e uccellini”), organico alla classe o alle classi nelle quali insegna piuttosto che alla classe operaia (che non c’è più e nelle sue forme residue acculturate non è più disponibile a farsi guidare da avanguardie parolaie e dirigistiche). È un “intellettuale organico” nel senso che unisce (o dovrebbe unire) in sé i due emisferi e, nel contempo, l’organicità naturale della corporeità e l’artificio (la capacità combinatoria e linguistica) della mente, e di questa unità fa il veicolo dei suoi output pedagogici.
Senza andare troppo lontano alle origini del rituale, del mito, della filosofia, basterà qui citare (si perdoni la deformazione professionale) la relazione pedagogica così come l’ha riformulata l’esperienza teatrale più autentica del secolo scorso. Da Stanislavskij a Grotowski il metodo di formazione teatrale dell’attore, anziché specializzarsi sul terreno delle tecniche mirate a arricchire la “finzione” si è concentrato sull’attore come uomo divenendo una pedagogia tout court. Negli sviluppi grotowskiani, le tecniche teatrali, una volta superato il teatro-spettacolo, si sono affermate come “veicolo” (letteralmente mezzo di trasporto) di conoscenza e di relazione. Un veicolo che scava nell’essere umano, che richiama saperi antichi, che riconnette corpo e mente, che collega direttamente, senza mediazioni, percezione, consapevolezza e conoscenza. Un regalo enorme quello del teatro alla scuola, un contributo essenziale per il cambiamento in profondità della relazione insegnante/studente. Un’occasione che poteva essere sfruttata meglio se le sperimentazioni – restate pionieristiche e mai divenute stabili – di teatro-scuola degli ultimi decenni, non fossero state solo esornative (al massimo considerate d’integrazione), spinte verso la spettacolarità a scapito del metodo.
La relazione insegnante/studente, nella versione teatrale diviene relazione maestro/allievo come nelle antiche tradizioni: Non è più inscrivere segni sulla tabula rasa del discente, pianificare una trasmissione razionale, fredda, calcolata; è prima ascolto e poi stimoli a che le pulsioni organiche e intellettuali dell’allievo reagiscano con azioni concrete, sola garanzia d’apprendimento. È una relazione umana tra due essere umani, con tutto l’alone di mistero che circonda (e non può essere dissolto, pena la banalizzazione) le relazioni tra gli uomini.
È non attendersi nulla, affidarsi all’imprevedibile. L’altro è sempre un ignoto, uno straniero da accogliere. È concepire il risultato, la fine dell’avventura di trasmissione/conoscenza come un regalo che la natura fa a chi ha lavorato con organicità e rigore. Un maestro non impone, libera, indica una strada, accompagna l’allievo per un tratto e poi lascia che vada. Il maestro sa quando sparire, morire, l’allievo sa che per diventare se stesso prima o poi deve superare il maestro, deve conquistare il coraggio di ucciderlo.
Ecco, in definitiva, il sapere (l’amore per la conoscenza) deve diventare una necessità. È l’unica possibilità che gli esseri umani hanno per non naufragare miseramente (tutt’altro che “dolcemente”) nel mare dell’infinito consumistico-virtuale nel quale sono immersi.
La rifondazione della scuola, pubblica e primariamente basata sul rapporto maestro/allievo rappresenta l’unico strumento possibile.