Ouverture: un passo avanti
Non siamo autodiretti e nemmeno eterodiretti. Siamo forse solo diretti, non sappiamo da chi, non sappiamo come. E non abbiamo nemmeno una direzione. Monadi bucate e slabbrate, vaghiamo in un spazio liquido, colmo di scarti e di rifiuti, in balia dei venti e delle correnti. Il soggetto è esploso frantumandosi in mille schegge; la personalità, il carattere sono avatar comprati al mercato delle occasioni, la volontà una presunzione senza fondamento. Non siamo padroni di noi stessi e nessuno ci tiene in catene: la dialettica servo/padrone si è dissolta, è repertorio del passato. Non siamo umani, non siamo animali, siamo forse solo replicanti. Una volta ballavamo come il Lucky di Aspettando Godot, e ancora sappiamo pensare, ma il pensiero è disconnesso, si serve della nostra bocca per vomitarsi, ci prescinde, ci trascende, si dipana e si esaurisce avvitandosi su se stesso. La tragedia dell’Io (e anche dell’Es) nel nostro tempo scentrato e sghembo, s’assomiglia ad una farsa, è una barzelletta yiddish. Non c’è psicanalisi che possa sanare le ferite perché il suo bersaglio è sempre un altro rispetto a quello disteso sul divano. Ma le ferite non bruciano e l’Io ride anziché dolersi del suo stato. Nonostante tutto ci muoviamo disinvolti nel nostro habitat, ci accompagna ancora un narcisismo grottesco che privo di una faccia, di una imago riflessa e persino di uno specchio, troneggia anche se ridotto ormai a immagine piatta di se stesso. La microfisica dei poteri è dunque andata così avanti da abolire qualsiasi distinzione tra dominio e dominati: non un potere che nega, che reprime e neanche un potere che afferma, che produce, soltanto un non-potere che nel momento in cui si esercita cancella le sue tracce, confonde i diktat, le prescrizioni, i buoni consigli, le istruzioni, i protocolli di cura e assistenza, trasformandoli in una nebulosa indistinta dove tutto si equivale e nulla si riconosce per quello che è. Così sopravviviamo, incapaci di valutare la nuova condizione, sprovvisti di difese, non sapendo di averne bisogno.
I movimento: due passi indietro
In assenza di una sintesi, perché i poli e le antitesi si confondono, si occultano, sie le conseguenze, ragionano ancora con gli strumenti del passato, ricorrono ai modelli introiettati: primo fra tutti l’idealismo hegeliano, magari rovesciato nelle forme del materialismo storico dialettico, ma confermato nell’astrazione, tutta razionale ed “irreale”, del suo assioma teorico che vede due poli che si contraddicono e prima o poi trovano un superamento nella sintesi. Una visione semplice, manichea, che divide il mondo in buoni e cattivi, rossi e neri e presuppone un ordine superiore che tutto sussume in sé e riconcilia. L’analisi delle contraddizioni, dei conflitti sociali si ferma alle domande semplici, alle risposte tradizionali: chi c’è dietro? Quale potere occulto, forte, repressivo, manipolatore? Si legge una realtà divisa in due, gerarchizzata in verticale, non si coglie la linea orizzontale che attraversa pseudo-dominati e pseudo-dominanti, la rete (solo apparentemente virtuale) che connette, complica e rende complici i poli di ogni dialettica.
II movimento: un salto nel vuoto
La realtà è mobile, tutto è precario, camminiamo circondati da mine, fango e acquitrini. Una serie di algoritmi sostituisce la realtà con un paesaggio virtuale dove le paludi sono terra ferma, le mine giocattoli, gli acquitrini oasi lussureggianti. Così, scambiando il virtuale con il reale, andiamo avanti illudendoci di abitare il migliore dei mondi possibili. La nostra vita era virtuale ancor prima che algoritmi e database instaurassero il loro dominio. Esporsi passivi davanti ad una televisione era già virtuale, attraversare e abitare un luogo dentro l'abitacolo di un’auto era virtuale, persino sognare, leggere e viaggiare con l’immaginazione dentro un libro ci trasferiva in una zona di virtualità. Se a tutto questo aggiungiamo il personal computer, internet, gli smartphone, cuffie e auricolari, dispositivi-protesi sempre più invasivi e penetranti, capaci di “aumentare” la percezione del reale, lo spazio-tempo dove una volta lo scambio di sguardi, le relazioni fisiche dirette, i sorrisi, le urla, i pianti erano consistenti e palpabili, evapora. Ci aggiriamo per questo paesaggio simulato come in un carnevale digitale con i nostri nickname e le nostre maschere, esibendo pezzi di intimità filtrati ed estratti dal “libro delle facce”, ci scambiamo messaggi in codice preordinati da una logica binaria. Ciononostante ci ostiniamo ad inseguire una certa autenticità, a dichiarare un desiderio di sincerità, ma alla fine della festa ci sentiamo comunque vuoti e insoddisfatti. È questo il motore che ci spinge a continuare, a ricominciare, illusi che la prossima volta andrà meglio. È la stessa frenesia che afferra nei labirinti del mercato dei beni/mali di consumo e trascina di bancone in bancone a caccia dell'oscuro - e sfuggente - oggetto del desiderio, eterna promessa di una realizzazione di sé sempre rinviata, ormai reificata e spogliata d'ogni vetusta traccia d'umanità.
III Movimento: sul limite
Le élite intellettuali piangono la fine del reale, hanno nostalgia per il tempo felice del c'era una volta, il tempo del racconto vis a vis, quando le facce si guardavano negli occhi e l'ascolto era vibrazione viva, tangibile. Gli individui colti disprezzano il virtuale, ne svelano le menzogne, denunciano come falsa e ingannevole la sua tridimensionalità, reclamano la carne e i corpi contro l’imago, contro lo schema fantasmatico installato in fondo all'anima di coloro che non sanno. Il resto dell'umanità, che possieda o solo aspiri a possedere un veicolo di virtualità (p.c., tablet, smartphone…), proiettandosi nell’orizzonte social, impiantandosi nel web, mossa dall'insoddisfazione, rinnega il passato “umano”, non teme l'avanzata dei robot, non percepisce la paventata minaccia di soccombere, gioca a simulare una “second life” e individua in questa una liberazione: l'agognata fuga da quel reale che, in contrasto con la vulgata intellettuale, gli appare come una prigione piuttosto che una perduta isola felice. L'illusione tridimensionale, la perfetta verosimiglianza dei colori, delle ombre e delle luci inducono i prigionieri a non dubitare della verità di ciò che appare ai loro occhi e li avvolge come fosse cosa viva. La caverna platonica così perfezionata e rovesciata (la prima vita al posto della seconda, le ombre in luogo del sole) si afferma come unica realtà possibile. Dobbiamo chiamare questa falsa coscienza? Il risultato di un abbrutimento iniziato più di mezzo secolo fa e che ha superato ogni pessimistica fantascienza? O c'è qualcosa di paradossale e scandaloso a dirsi, che turba le menti elette e mette a soqquadro la loro dialettica, sfumando le contraddizioni, sospendendo il tempo della sintesi preordinata e instaurando un gioco aperto a poli invertiti (virtuale/ reale) e una negazione che non restaura. Il virtuale non è un riflesso simulato, ma un altro reale, più etereo e più materico insieme, che sopperisce al degrado di un reale che ormai non è che l'ombra di se stesso.
IV Movimento: lo sguardo oltre
Non si può andare indietro, ripercorrere il percorso compiuto e riafferrare la pienezza di un reale dissanguato, e non si può andare avanti, inseguire ciecamente solo le lusinghe di un virtuale ammaliante e ambiguo. La sintesi che concilia i poli in un'unità superiore non è disponibile, la contraddizione, le differenze s’occultano: è nelle maglie della nuova “realtà” che bisogna cercare la risposta. L'estensione spazio-temporale delle reti social, sia pure in una dimensione altra rispetto a quella in cui siamo cresciuti, ha i suoi lati positivi, beninteso per i ben intenzionati, per coloro che anche nella “second life”, non distratti dalle facili attrazioni, continuano a cercare, escono dai confini della solitudine, instaurano contatti che non sono effimeri, come a tutta prima potrebbero sembrare, ma forse più asciuttamente sinceri di quelli intrecciati nella “first life” dove il torbido del “qui ed ora” offusca e ottenebra i legami trasformandoli spesso in nodi inestricabili, incomprensioni ed equivoci suscitatori di bruschi allontanamenti e di insanabili lacerazioni. Le parole non sono simulacri delle cose, il mondo virtuale evocato da un buon romanzo o da un film ben fatto, non è un supplemento ideologico, ma un riempimento di quella béance (termine usato da Lacan per nominare la falla - apertura, faglia - tra la mancanza-a-essere e il completamento materno) che divora e assorbe l'io sin dalla sua gestazione. Sono realtà viva, non cerotti ma pomate rigeneranti. È questa la direzione da intraprendere: scambiare parole vive, rinunciare al possesso delle cose (che poi sottintende anche delle persone), non temere l'aleatorietà della proiezione immaginaria cercando in essa, piuttosto che nell’abbagliante luce della vita reale, la più piena condivisione con l'altro. La distanza spinge ad un’apertura più autentica; parlare di sé, della propria mancanza è più facile. Una confessione scritta, persino in una mail, ha il sapore denso di una pagina letteraria, e se quel che resta dell'ego sopravvissuto nel tempo delle macerie è tenuto a bada, può suonare altrettanto sincera. Non si tratta di concedersi alle finzioni di una realtà aumentata, ancora di là da venire, si tratta piuttosto di contrastare la sua avanzata, contaminandola con le forze dell’immaginario, ovvero da esperimento psico-percettivo sublimarla in esperienza artistica.
Finale: qui ed ora
Bisogna naufragare per potersi salvare, lasciar deflagrare il soggetto, ritrovarsi atomi persi senza nome, senza radici né antenati, nella nuova realtà che oggi è solo in potenza, ai suoi primi passi e appare incerta e minacciosa, ma domani potrebbe essere l'unica possibile con cui fare i conti. Non una realtà simulata, posticcia, ma una “foresta di simboli” incarnata che avrà rimodellato la Natura, quella umana compresa. È inconcepibile, è vero, nel paesaggio odierno, e tuttavia non abbiamo alternative; nella dialettica non c'è restaurazione retrotopica a favore della tesi che possa vincere la battaglia e nemmeno una sintesi idealistica che si lasci trascinare nella direzione impressa dall'antitesi, c'è soltanto il perdurare di una “negazione della negazione” che è lotta, attimo per attimo, centimetro per centimetro.