L. Firpo, “Introduzione” a. T.More, Utopia (1516), Guida, Napoli 1981, 20002
Parlare e scrivere di utopia oggi dovrebbe essere fuori luogo e fuori tempo.
Da anni si è ormai decretata la fine delle utopie, eppure ci si ritrova sempre di più a parlarne, a trovare nuovi modi di riferirsi all'utopia senza che la si citi direttamente, a dare origine a nuovi nomi per indicare qualcosa che è pur sempre legato ad essa, a una sua particolare forma, a una sua sfumatura, a una possibilità in essa contenuta e non ancora svelata.
Malgrado i tentativi di evitarla e di superarla, sempre però all'utopia ci si riferisce. Nel Novecento Ernst Bloch ha tentato di allargare le maglie di questo concetto, fino a far diventare utopia ogni umana tensione all'oltrepassamento di sé, diretta al futuro, piena di desiderio. I rossetti, i trucchi, i piumaggi servono anch'essi al singolo a sognare di «uscire dalla caverna». A questo allargamento del concetto e del termine, che porta a entrare nell'ambito semantico e concettuale della speranza – quando le maglie sono troppo larghe, però, tutto e niente è utopia – Bloch aggiunge un elemento che fa da discrimine ed è lì la forza della sua riflessione, ciò che ci consente di dire che allora quest'opera ha un senso per le donne e per gli uomini e per quello che essi possono (ancora) fare: «Tuttavia se non vi è alle spalle la forza di un io e di un noi anche la speranza diventa insipida» (E. Bloch, Il principio speranza (1959), Garzanti, Milano 1994, p. 173).
Se oggi si parla e si scrive ancora di utopia, è perché quella tensione è ineliminabile. Ma quell'io e quel noi - che è poi il fondo antropologico su cui si regge l'intero discorso blochiano - producono utopie frammentate, a pezzi, utopie trasformate in consigli morali e buone pratiche da diffondere. L'io è solo ed esclusivamente io e il noi è solo un insieme occasionale di noi. Ma sempre di utopia si tratta, anche se imperfetta, ridimensionata, trasformata. Al limite, però, di diventare altro da sé.
Guardandomi nel mio specchio, stentai a riconoscere il mio volto.
Mi ero coricato coi capelli biondi,
con una carnagione bianca e con le guance colorite.
Quando mi alzai, la mia fronte era solcata di rughe,
i miei capelli eran diventati bianchi,
avevo due ossa sporgenti al di sotto degli occhi,
un naso lungo e un pallido e scolorito colore
era sparso in tutta la mia figura.
L.- S. Mercier, L’anno 2440 (1770), Edizioni Dedalo, Bari 1993.
Ogni tempo ha le proprie utopie, nel senso che in ogni epoca c'è stato uno spazio dell'immaginazione destinato a quel non-luogo che potesse rappresentare il “bene” di contro al “male” del presente, i desideri, le aspirazioni di un'epoca e di una società nel suo insieme (se queste possano davvero tutte racchiudersi solo nell'immagine di un luogo altro, è altro tema da discutere).
In certe epoche, però, lo spazio riservato alle utopie è stato veramente potente, carico di aspettative e sembrava, ad un certo punto, che potesse (volesse o dovesse?) incontrarsi con la realtà. In certi casi l'incontro c'è stato e non è detto che questo abbia rappresentato necessariamente un aspetto positivo.
Tempo e utopia sono legati, però, anche perché nell'utopia non si immagina solo un altro luogo, che non esiste, ma questo luogo è anche in un altro tempo. Fittiziamente parallelo al presente. Oppure proiettato nel futuro.
Ad un certo punto il futuro è diventato parte integrante dell'utopia, perché in essa vi era la speranza concreta della sua stessa realizzazione.
È difficile pensare che in More potesse esserci un progetto di instaurazione più o meno immediata del modo di governo, degli usi e dei costumi utopiani. La delineazione del non luogo utopico, in questo caso, serviva più come critica del presente, magari nell'ottica di incoraggiare una sua parziale riforma, che come progetto politico. More non era un rivoluzionario.
Dal settecento in poi – e qui seguo in parte la visione di uno studioso come Koselleck -, l'utopia comincia ad andare in maniera decisa verso il futuro e prevale l'azione politica: «Il concetto di “utopia” assume un carattere politico generale, che si riferisce a progetti di possibili ordini politici nella prospettiva della loro realizzabilità e non in quella della loro irrealizzabilità» (R. Koselleck, Il vocabolario della modernità. Progresso, crisi, utopia e altre storie di concetti, il Mulino, Bologna 2009, p. 143).
L'utopia diventa un progetto rivoluzionario, una proposta politica che deve essere realizzata. Non si tratta solo di un messaggio in bottiglia per scuotere le coscienze, ma di una chiamata ad agire.
La critica di Marx e Engels all'utopia si situa proprio su questo solco ed è quella che più ha modellato anche l'opinione comune, secondo la quale utopica è quella visione che non è possibile si realizzi perché troppo sganciata dalla realtà. Per Marx ed Engels la chiamata ad agire del socialismo e del comunismo critico-utopistico, pur mantenendo una valenza positiva come critica della realtà esistente, non si basa su alcunché di scientifico, è una fantasticheria, che dipende dalla buona volontà dei singoli: «Continuano [i socialisti utopisti] a sognare la realizzazione delle loro utopie sociali, sperimentando qua e là: formazione di singoli falansteri, fondazione di colonie in patria, edificazione di una piccola Icaria – edizione in dodicesimo della Nuova Gerusalemme -, e per la costruzione di tutti questi strani castelli in aria si appellano alla filantropia dei cuori e dei borsellini borghesi» (K. Marx, F. Engels, Manifesto del partito comunista (1848), Laterza, Roma-Bari 2003, pp. 51-53). Altra cosa è la rivoluzione comunista da loro prospettata e annunciata “scientificamente”.
La riflessione sul tempo dell'utopia va di pari passo con quella sullo spazio e sulla forma.
Non tanto nel senso dello spazio dell'immaginazione a cui si attinge per dar forma all'utopia, ma del “non-luogo” felice che l'utopia descrive.
Quella di More è un'isola, di cui l'autore ci fornisce anche una mappa per farci credere che essa possa veramente esistere in qualche luogo. La città del sole di Campanella è circolare, la sua forma rispecchia in maniera diretta l'ideale normativo sotteso, è tutt'uno con essa. Il falansterio di Fourier è il luogo pensato per far vivere insieme anche più di duemila persone, secondo un modello economico basato sulla proprietà societaria.
Non è un caso che nelle opere di coloro che si sono posti in maniera più o meno aperta come critici dell'utopia ad essere messo in discussione come prima cosa è lo spazio che l'utopia occupa, la forma che questo assume anche sulla base del modello di autorità politica che viene tratteggiato.
Penso a Johnathan Swift. Gulliver incontra e conosce Lilliput, Blefuscu, Brobdingrag, Laputa, Glubbdubdrib, Luggnagg, la terra degli Huyhnhnms. Città minuscole e giganti, terre che fluttuano nell’aria o abitate da cavalli molto più virtuosi degli uomini. È impossibile rintracciare un modello univoco di riferimento e ritagliare uno spazio d’azione per l’uomo. Alla fine il protagonista sceglie due cavalli invece che la propria famiglia.
Ma prima di Swift, anche ad esempio in Cyrano de Bergerac comincia un’erosione del fondamento normativo dell'utopia. L'altro mondo è la luna, che alla fine non ci sembra altro che un'immagine speculare della terra. C'è una critica dell'esistente, ma su cosa fondare un possibile miglioramento della società non appare molto chiaro. L'immagine della città perfetta si perde in mille rivoli barocchi. Sul sole, nella repubblica degli uccelli – questa sì un'utopia apparentemente tradizionale – c'è qualcosa che non torna. Il modello perfetto proposto dagli uccelli si incrina, anche gli animali che dovrebbero essere custodi e testimonianza di un auspicabile ritorno alla natura, sembrano più simili agli uomini imperfetti che a “spiriti divini” (come loro stessi amano definirsi).
Sono le radici della distopia, una specificazione della prospettiva antiutopica che prende però sul serio l'utopia volendo mostrare il suo lato oscuro, distorcendo il suo messaggio positivo in negativo. È la proposta di una società perversa, questa volta proiettata quasi necessariamente nel futuro. È il progetto – sociale, politico, culturale – che non vorremmo mai si realizzasse.
[…] le speranze di miglioramento,
a suo tempo riposte in un futuro incerto e palesemente inaffidabile,
sono state nuovamente reinvestite
nel vago ricordo di un passato
apprezzato per la sua presunta stabilità e affidabilità.
Un simile dietrofront trasforma il futuro,
da habitat naturale di speranze e aspettative legittime,
in sede di incubi.
Z. Baumann, Retrotopia, Laterza, Roma-Bari 2017
E oggi? Di utopia si continua a parlare, ma cosa è rimasto di un concetto carico di tutte le sue stratificazioni che epoca dopo epoca hanno aggiunto, integrato quel duplice binario che già l'etimologia del termine segnava come aperto a diverse possibili interpretazioni – non luogo e, al tempo stesso, luogo felice?
Come dicevo all'inizio, l'aver decretato la fine delle utopie ad un certo momento del Novecento non ha fatto sì che di utopia non si parlasse più. Tutt'altro. È sicuramente prevalso il modello della distopia, in un proliferare di descrizioni di mondi malvagi, distorti, tragicamente perfetti che sembra non avere mai fine. Non passa mese in cui un romanzo o un racconto distopico non venga realizzato, i lati oscuri di mondi futuri perversi sembrano avere infinite possibilità di moltiplicazione.
La sorgente è la stessa dell'utopia, per quanto l'esito sia rovesciato. La blochiana esigenza all'oltrepassamento di sé, la forza dell'immaginazione, l'ansia del giusto per l'utopia o la paura dell'ingiusto per la distopia.
Probabilmente la lettura “retrotopica” del presente che ha fornito Baumann contiene in sé la più precisa analisi prodotta sulla situazione odierna. Questo richiamarsi ad un passato immaginato come migliore del presente per paura dell'incertezza del futuro e che ci chiude inevitabilmente su noi stessi – perché ciò del passato di cui abbiamo nostalgia è ciò che ci divide, che rassicura i nostri possessi, le nostre singole esistenze – è una realtà. Nelle parole di Baumann è come se si ripercorresse il cammino già compiuto dall'utopia, la retrotopia mostra i suoi lati oscuri fin da subito perché se si dovesse riportare il passato nel futuro non ci sarebbe nient'altro che la riproposizione di quanto abbiamo oggi (che il passato sia solido e “bello” rispetto ad un possibile futuro è, in realtà, solo un'illusione).
Eppure di utopie in senso tradizionale si continua a parlare in maniera quasi ossessiva, ma sono diventate altro: piccole, “minimaliste” (v. ad esempio L. Zoja, Utopie minimaliste. Un mondo desiderabile anche senza eroi, uscito nel 2013), proporzionate al soggetto che le pensa, il singolo. Spazi e forme poco definiti, tempo dal futuro sfocato. Sono sogni individuali e individualistici oppure sono buone pratiche per un mondo migliore: ma se volessimo unire insieme questi diversi aspetti per dar vita a un altro mondo, speranza collettiva, sogno di molti anche se non di tutti, i contorni di quest'immagine risulterebbero poco nitidi (a questo discorso fa forse eccezione Ecotopia di E. Callenbach, ma scritta nel 1975 e quindi già datata). È chiaro che per i critici dell'utopia alla Popper, questo multiforme e ridimensionato aspetto dell'utopia sarebbe, in realtà, altamente positivo, perché correggerebbe le pretese totalizzanti che l'ingegneria utopica contiene necessariamente in sé (cfr. La società aperta e i suoi nemici del 1943).
Al di là di questo, credo che la parola “utopia”, e quindi il concetto ad essa collegato, tenga insieme tutti i molteplici aspetti che nel corso del tempo sono stati variamente attribuiti ad essa. La sua storia è stata quella di una metamorfosi che l'ha vista allargarsi, ridursi, diventare il contenuto di menti esaltate o un progetto rivoluzionario da realizzare qui e ora o un semplice racconto fantastico (per limitarmi a tre possibili accezioni).
Parlare di metamorfosi non significa, però, neutralizzare il portato dell'utopia. Quel contenuto, quel messaggio in bottiglia che anche quando non si fa progetto rivoluzionario, è comunque un appello ai posteri, deve esistere altrimenti l'utopia diventa altro da sé. E allora, forse, dovremmo riuscire ad andare a vedere cosa c'è oltre l'idea delle utopie parcellizzate e ridimensionate, ma pur sempre dignitose utopie connaturate al proprio presente.
Si diceva, a proposito della speranza di Bloch, del soggetto dell'utopia. Quel noi di cui ha bisogno la speranza per alimentarsi e spingersi avanti sembra essere presente più in quella visione retrotopica pensata da Baumann, che diventa uno spaventoso sogno al tempo stesso collettivo e individuale, che non nelle piccole utopie dai canoni tradizionali diventate un prodotto come tanti altri, perso nell'ipermondo globale delle merci a uso e consumo di monadi isolate, anche se costantemente e superficialmente connesse le une alle altre, quali siamo noi oggi.
Un'utopia nostalgica, quindi, che non ha bisogno di alcun noi. Vi è la condivisione di un sogno che però conduce all'isolamento. Mentre quelle immagini parcellizzate che potrebbero essere parti di una speranza collettiva, rimangono a uso e consumo di singoli o di gruppi limitati.
Studiare l'utopia e la storia delle utopie significa anche abituarsi a pensare che infinite sono le vie dell'immaginazione delle donne e degli uomini di qualsiasi tempo. E che se adesso la parabola utopica assume una forma discendente, non possiamo dire con certezza che sarà così anche tra qualche anno. Ciò che possiamo fare oggi è tentare di dispiegare noi stessi, vivendo contesti di apertura e di relazione con gli altri, facendo diventare questo sforzo esperienza concreta di vita. Le possibilità si presentano davanti a noi quotidianamente, basta solo saperle riconoscere. D'altra parte, prima che politica, è un'opera - meravigliosamente e tragicamente - culturale.