Ormai da decenni i network televisivi riempiono i palinsesti di trasmissioni a sfondo politico o condiscono di pseudo informazione politica format nati con diverse finalità. Manca solo un reality di politici ed il cerchio è chiuso.
Più che informazione politica, ciò che si dipana quotidianamente sugli schermi televisivi è un racconto della politica a metà strada tra il gossip retroscenista e la fiction di taglio realistico.
Niente di male naturalmente, in fondo si tratta di nuovi modelli di programmi destinati ad ampliare l’offerta spettacolare. Se non fosse che questi nuovi modelli di “informazione” sono il tramite principale attraverso il quale l’azione politica si manifesta, si compie e si racconta, dal momento che le aule del parlamento così come le piazze sono svuotate di senso e di ogni autonomia per essere usate ad arte in funzione del loro rimbalzo televisivo.
Così mentre l’informazione dovrebbe riferire i fatti, limitandosi a descriverli e mostrarli, in nome di una “verità” priva di commenti e di interpretazioni, al contrario il palinsesto informativo dei diversi canali televisivi, nel suo caravanserraglio di opinioni contrastanti ma sempre equivalenti, finisce con il negare l’esistenza di una “verità vera” sostituendola con il racconto di una pluralità di verità parziali in un circolo vizioso senza fine.
Così lo spettatore gode dello spettacolo offerto, ride o piange, si arrabbia o si gratifica, indifferente all’origine fattuale degli eventi narrati.
Chi ha ragione, chi ha torto? Non può essere che tutti abbiano nello stesso tempo torto e ragione. Qual è la funzione del conduttore? Fare le domande, si dice, anche scomode, ma poi quando le risposte diventano un vespaio fastidioso e infruttuoso, quale dovrebbe essere il suo compito? Chiarire, puntualizzare o sorvolare? Nella maggioranza dei casi assistiamo alla tattica del passar oltre, del soprassedere.
Tutto è discutibile, persino i numeri non danno certezze: un segno meno in bocca ad un oppositore del governo in carica è un fatto grave, mentre nella lettura di un membro del governo si trasforma in un segno positivo, e c’è sempre un altro numero in grado di mettere in dubbio la verità del segno negativo.
E allora?
Alla fine vince sempre il più forte, chi fa la voce più grossa, chi conosce meglio le regole della televisione e sa usarle a proprio favore, chi ha argomenti semplici, non importa se falsificanti, ma tali da essere espressi in pochi slogan che come le bugie a forza di essere ripetuti passano per verità sacrosante.
E il conduttore (che spesso è anche un giornalista autore della trasmissione)? Sta al gioco e ne fruisce, gode della bagarre messa in piedi, è soddisfatto della riuscita dello spettacolo costruito, si congratula con i protagonisti, è attento allo share e alla consistenza degli inserti pubblicitari.
L’offerta dei palinsesti è varia, il racconto televisivo della politica si dispiega attraverso una molteplicità di lingue e modelli 1 : c’è il talk politico puro (un conduttore, ospiti politici e opinionisti), con la variante del pubblico in sala o meno; c’è il format ibrido: talk intervallato da mini inchieste su piazza con inviati; c’è il modello inchiesta corredato di interviste sul campo; c’è il talk show: il politico di turno è ospite mescolato con un parterre di personaggi del mondo dello spettacolo e affini; c’è la trasmissione d’intrattenimento con il reparto politico informativo (in forma d’intervista o di mini dibattito) e il reparto più di spettacolo, cronaca etc.
I cinque modelli possono presentarsi puri o impuri, cioè mixati tra loro; tutti insieme pervadono gli schermi televisivi in una sequenza ininterrotta da mattina a notte inoltrata.
Nella differenziazione formale ci sono tuttavia alcune costanti che accomunano tutti i format facendoli pendere pericolosamente verso la dimensione spettacolarista, alla ricerca dello scoop, in nome del sensazionalismo a tutti i costi.
La prima, quando è prevista la presenza di un pubblico, è la ricorrenza dell’applauso. Gli applausi scandiscono, manifestando apprezzamento e approvazione, le affermazioni del politico di turno, i passaggi più “spettacolari” della trasmissione, con l’effetto paradossale di mostrare un gradimento di discorsi spesso in netto contrasto, confondendo ogni differenza in un’unica zuppa che tende a valorizzare più la forma brillante, la vivacità del politico che il contenuto. Un effetto, questo, che si propaga oltre il segnale digitale e coinvolge anche lo spettatore domestico invogliato a cogliere lo “show”, l’agone quasi sportivo del dibattito piuttosto che la serietà e la fondatezza dei pronunciamenti politici.
Ad acuire questa dimensione depoliticizzante è la presenza del siparietto comico, usato come copertina o come intermezzo o come vera e propria rubrica fissa. Il comico, o chi pur non essendolo con la sua apparizione tende a costituire l’angolo del personaggio eccentrico, a priori o a posteriori delegittima (ridicolizzando) chiunque nel seguito della trasmissione provi a fare discorsi seri, costringendolo ad un’autolimitazione (autoironica) finalizzata ad evitare di rientrare nelle categorie stigmatizzate dal comico.
Tra applausi e risate la pancia dello spettatore viene solleticata, la noia seriosa della politica sventata, il format ha un discreto successo, appiattendosi sul modello dello show tout court, e i politici più demagoghi, più inclini alla battuta o allo slogan semplice, sono premiati e lanciati nel mercato della politica, con indifferenza rispetto ai contenuti che possono essere anche aberranti, ma in quanto conditi di simpatia e fervore appassionato diventano accettabili.
Una terza costante (nei format che la prevedono) è l’inserimento del servizio breve fuori studio, in strada, piazza, davanti a cancelli di una fabbrica, in prossimità dei palazzi del potere.
Ancora una volta non è il contenuto a renderli significativi (per lo più non aggiungono niente a ciò che già si sa o che non possa essere riferito in studio), ma il modo con cui sono strutturati. Flash brevi, immagini montate come in un videoclip musicale, accompagnamento di musica pop-rock, scelta di solito senza alcuna relazione con il soggetto del servizio ma in funzione della sua capacità accattivante, musica sparata ad alto volume, tale da coprire i testi di commento o le parole degli intervistati.
Ancora un’altra costante è l’irruzione dell’“agente provocatore”, il giornalista o l’uomo di cultura che ha creato la sua fama televisiva in virtù della capacità di suscitare risse in diretta, sempre pronto ad alzare il livello dello scontro, a debordare oltre i limiti della decenza verbale, capace di far saltare sulla poltrona anche il più serafico dei politici. Quando il dibattito langue, gli ascolti calano e la trasmissione è in crisi ecco apparire l’agente provocatore al quale è demandato il ruolo di porre rimedio alle défaillance del programma, suscitando una eco che rimbalzerà sul web, sarà riciclata su blob, insomma finirà con il ridare fiato al talk show in affanno.
Last but not least, c’è la costante dell’uso deviato della “par condicio”. Nata a suo tempo per difendere un principio sacrosanto: garantire un’informazione equa limitando lo strapotere mediatico del politico Berlusconi detentore di tre reti televisive, di diversi giornali e in quanto presidente del consiglio, capace d controllare anche le tv pubbliche, nella sua applicazione circense-spettacolarista, si è trasformata in un boomerang, finendo con l’appiattirsi (con profetico anticipo temporale) sulla logica dell’“uno vale uno”. Gli studi televisivi si popolano di politici delle più varie provenienze, disposti a circolo intorno a un tavolo o in un’arena disseminata di scranni o poltrone, il valzer delle opinioni, più o meno sensate, ha inizio, non c’è nessun discernimento rispetto ai contenuti espressi, nessun giudizio, tutto è possibile, tutto si equivale, l’approfondimento è bandito. Tutto funziona come al bar, dove il barman (il conduttore) è una voce tra le altre: non modera, non interviene per correggere gli eccessi o contraddire le infondatezze, ma semplicemente si aggiunge alle altre voci per dire la sua, contribuendo alla babele generale. Nel migliore dei casi l’effetto sullo spettatore è che ciascuno ha ragione e che sui fatti discussi non c’è mai una verità definitiva. Nel peggiore (il caso più frequente), il più arrogante, il più prepotente di turno, il politico più capace di parlare sopra gli altri la vince e di trasmissione in trasmissione si crea un finto carisma, le sue posizioni, giuste o sbagliate che siano, hanno risonanza e consenso e, magari, alle prime elezioni che capitano trionfano.
Nella fascia intorno all’ora di pranzo, ogni giorno dal lunedì al venerdì, su un network nazionale, c’è una trasmissione – condotta da una bionda conduttrice di mezza età – che raccoglie in sé, moderatamente ma inequivocabilmente, ogni ingrediente fin qui esposto.
È un esempio, un caso paradigmatico.
Ci sono le poltrone, lo schermo per i collegamenti, la postazione della conduttrice, un piccolo pubblico selezionato, ci sono i brevi servizi, i collegamenti su piazza o davanti alle fabbriche, le interviste al volo davanti ai palazzi del potere, la chiacchiera degli ospiti che, continuamente intramezzata dalle spiritosaggini dell’amena conduttrice, si svolge in una sequela di opinioni a tema in sovrapposizione e mai spinte ad un confronto serio, approfondito, non rissoso. Tutto è propinato con leggerezza e con un pizzico di retorica, si ride, ci si diverte, si fanno battute, si diventa compuntamente seri e commossi di fronte “ai casi umani”, alle situazioni drammatiche, con l’aria di chi partecipa degli umani travagli, ma senza mai esserne coinvolto in prima persona. Non mancano ad ogni puntata piccoli agenti provocatori che, in virtù delle loro posizioni estremistiche esposte senza falsi pudori, hanno il compito di accendere la trasmissione di tanto in tanto. Su tutto emerge la preponderante invadenza della conduttrice che non si fa scrupolo di interrompere chiunque, ospite o inviato che sia, per dire la sua, e più spesso per condire di imperdibili motti di spirito ogni discorso. Insomma si trascorrono un paio d’ore in compagnia della politica, ma senza accorgersene, tra il pranzo e la prima digestione, come se si trattasse di un programma di cucina o di un talk gossipparo qualsiasi.
Il risultato di tutto questo ossessivo e ripetitivo racconto televisivo della politica 2 è che a lungo andare la classe politica, modellandosi sulle regole dei format in voga, aggiunge a tutte le degenerazioni che già di per sé nel corso degli anni ha accumulato la totale amnesia del suo ruolo e dei suoi compiti, finendo con l’immaginare che essi consistano nel garantirsi un successo e un primato comprovati tra le platee televisive, scambiate per il “popolo”.
Non solo, nella sua finta leggerezza spettacolarista il racconto politico in TV, saldandosi con le “grandi firme” della stampa e allacciando un fitto rapporto di rimandi e rimbalzi con i social del web, ha acquisito un enorme, smisurato potere d’influenza sul consenso popolare 3, al punto da essere in grado di distruggere o costruire intere carriere politiche 4.
Una sana igiene dell’informazione dovrebbe indurre ad una drastica riduzione di questi programmi, ad una sostituzione con trasmissioni di approfondimento culturale, con inchieste sociali serie e non scandaliste o votate semplicemente alla denuncia, ma, si sa, sarebbe come andare controcorrente, e gli attuali assetti del potere televisivo così come di quello politico non lo permettono.
Lasciamo da parte i TG per i quali andrebbe sviluppata un’analisi specifica, da un lato strutturale ovvero dei principi in base ai quali sono impaginati, dall’altro storico-evolutiva per verificarne la trasformazione avvenuta nel tempo e la contaminazione strisciante con il format talk-show.
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In realtà inutile e non giustificato dallo svolgersi e dal succedersi dei reali avvenimenti politici che come è noto hanno tempi lunghi e lenti. Dunque per forza di cose il racconto politico televisivo – riempiendo ore e ore di palinsesto ogni giorno – è votato alla ridondanza e alla ricerca-invenzione esasperata del “retroscena” su cui discutere.
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Ciò avviene nonostante l’audience di questi programmi ormai da tempo non brilli, ma è la disseminazione capillare nell’orario della programmazione televisiva e l’estensione diffusa in tutti i network pubblici e privati a determinarne l’effetto e l’efficacia.
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