«Ogni cultura è sempre non soltanto una coperta troppo corta per coprire i vari aspetti del reale, ma è anche una prigione troppo stretta: ogni cultura produce in sé il bisogno di uscirne» Francesco Remotti
Differenze e identitàLa diversità delle culture è generalmente dibattuta ricorrendo alla coppia differenza/identità. Una coppia che si presta spesso a opposte finalità politiche. Si pone l’accento sulla differenza per affermare una visione multiculturale oppure si pone l’accento sull’identità per affermare una visione identitaria. Eppure una nozione non può fare a meno dell’altra.
La nozione di differenza è inscindibile da quella d’identità perché procedendo per comparazioni e distinzioni postula l’esistenza in ogni cultura di tratti distintivi riconducibili ad un’unità e un’omogeneità che costituirebbero la sua identità. In questo modo ogni differenza comporta un’identificazione. Se disegno una circonferenza su un foglio e indico con la lettera A tutto ciò che è contenuto in essa, tutto ciò che le è esterno sarà non-A.
Non vi è forse immagine più eloquente dell’operazione d’inclusione e al contempo di esclusione che realizzo con il tracciamento di questa linea di confine. E quando dal piano filosofico passiamo a quello quotidiano della politica ecco che la parola ‘identità’ diventa un concetto pernicioso soprattutto per i contatti che intrattiene con l’idea di tradizione e con la metafora delle radici. Entrambe hanno ritrovato nell’attuale mondo politico della destra, nelle sue versioni hard e soft, un posto d’onore. Si tratta, in parte, di una reazione agli effetti di uniformazione culturale indotti dalla globalizzazione dei processi produttivi, della circolazione delle merci e dei consumi. Una reazione che comporta una buona dose di ipocrisia considerato che chi si appella al sacro valore della tradizione e delle radici è ben inserito nella iper-modernità, in quello stile di vita contraddistinto da una irresistibile adesione a consumi e gusti globali nonché da una marcata libertà di costumi. Se nel presente il vissuto quotidiano di un italiano è simile a quello di uno spagnolo o di un olandese e le distanze tra paesi occidentali e non occidentali si vanno riducendo, allora non resta che cercare nel passato i tratti distintivi di un’identità nazionale.
Ma cos’è mai la ‘tradizione’? Considerando l’Italia, l’immaginario popolare probabilmente la concepisce come un mix di lingua madre, fede cristiana, abitudini alimentari, made in Italy e presunti modi di dire, di gesticolare ecc. Ma c’è anche una versione che aspira a dare un fondamento nobile, culturale e storico, all’idea di tradizione.
Marcello Pera nel 2005 al Meeting di Comunione e Liberazione affermava in modo perentorio che la nostra identità discende dalla tradizione giudaico-cristiana che è alla base dei nostri sentimenti morali e da quella greco-romana che è alla base delle nostre istituzioni pubbliche. Nel contesto del medesimo discorso l’oratore arrivava a lanciare in modo minaccioso una sorta di anatema: “Chi rinnega queste origini tradisce la propria storia e perde la propria identità. Noi non dovremo consentirlo.” A conferma che tradizione e radici sono due parole che viaggiano assieme, lo stesso anno, sempre Pera, ad un convegno tenutosi a Roma, pronunciava un discorso che s’intitolava significativamente “Il dovere dell’identità” in cui evocava l’immagine di un albero e delle sue radici quali metafore in grado di rappresentare l’idea di una mutevole ma imperitura identità tradizionale. Nel suo discorso le radici sono considerate la parte più importante in quanto danno linfa, cioè nutrono, i rami e le foglie associati simbolicamente a secondarie determinazioni storiche che si sono innestate nel tronco della tradizione (M. Bettini, 2016).
Scarti e risorseConsiderazioni che ci conducono facilmente a incrociare forme di identitarismo estremo che attraversano un po’ tutta l’Europa. Così, per restare in casa nostra, all’ingresso di Pontoglio, un piccolo paese della provincia di Brescia a guida centrodestra, qualche anno fa capitava d’imbattersi in un cartello che sotto la denominazione del Comune riportava la seguente scritta: “Paese a cultura Occidentale e di profonda tradizione Cristiana. Chi non intende rispettare la cultura e le tradizioni locali è invitato ad andarsene”. Una forma d’identitarismo casareccio e confusionario (la cultura occidentale tout court giustapposta alla tradizione cristiana) che tuttavia trova oggi un suo riscontro negli umori dominanti a livello nazionale. L’ossessione identitaria si basa sull’esplicito o implicito riferimento ai valori della tradizione e a presunte radici culturali nazionali, etniche e religiose. Tradizione e radici sono le due parole magiche che evocano la storia e la natura. La tradizione si eredita dal passato, dai nostri antenati e dai nostri padri e le radici, in virtù del loro rimando alla dimensione biologica, naturale, si rivestono di un’aura sacrale che non ammette discussioni e/o interpretazioni. La metafora delle radici ha un’indubbia efficacia rappresentativa in quanto fa appello al potere dell’immagine. Le radici le vediamo subito ancorate e immerse nel suolo, immaginiamo l’andamento contorto con cui si allungano e sprofondano verso il basso trasmettendoci una sensazione di stabilità e di legame forte con il ventre della madre-terra. Il resto viene da sé: ogni popolo ha le sue radici, le sue tradizioni quindi la sua identità culturale che sanciscono la sua appartenenza alla propria terra d’origine. Non basta pertanto insediarsi in un determinato suolo per divenire parte della cultura che lo abita. L’ostilità verso lo ius soli si basa proprio su questo presupposto ideologico elevato alla dimensione del mito. Lo straniero, nella fattispecie l’immigrato, è portatore di un’altra identità culturale lontana dalla propria e radicata in un indeterminato e lontano altrove che lo rende inidoneo all’acquisizione del diritto di cittadinanza fuori della sua patria.
La legittimazione del mito dell’identità culturale non si genera soltanto dal basso con il richiamo alle radici che ci spiegano cosa è fondamentale ma anche con l’evocazione di una discendenza cioè attraverso il riconoscimento e la consacrazione dei nostri antenati e dei nostri padri. Sempre Pera, nel discorso prima citato, ci ricorda che “Scendiamo da tre colline: il Sinai, il Golgota, l’Acropoli. E abbiamo tre capitali: Gerusalemme, Atene, Roma. Questa è la nostra tradizione” (M. Bettini, 2016). Ai padri si deve obbedienza e degli antenati si deve seguire l’esempio. Così la tradizione diventa un imperativo che qualcuno per noi si preoccupa d’imporre in nome di un’autorità indiscutibile. Nessuno può permettersi di recidere questo indissolubile legame che lo lega ad una tradizione, a delle radici, a un territorio, in breve, ad un’identità culturale. Non importa quanto di arbitrario vi sia in queste posizioni identitarie e tradizionaliste allorché in modo approssimativo e interessato riducono la tradizione a quelle componenti che meglio rispondono alla propria ideologia. Maurizio Bettini (2016) ci ricorda, ad esempio, che lo storico Tito Livio nella sua Storia di Roma afferma che “l’inizio e il nerbo della futura grandezza” della Città discendeva da quella “turba indiscriminata” di genti che confluì in essa. Roma fu asylum di schiavi in fuga, esuli, assassini, migranti che fecero di essa una città meticcia. Sappiamo bene quanto il meticciato sia aborrito da chi coltiva impulsi identitari in quanto allontana da un’immagine fittizia di omogeneità, di unità, di compattezza e di purezza di una cultura. Presupposte proprietà che negano il carattere evolutivo ed eterogeneo delle culture. Una cultura è tale solo in quanto si trasforma. Una cultura che non si trasforma è una cultura morta. Difenderne l’identità come sostanza unitaria e immobile significa mummificare un cadavere, significa scrivere il suo necrologio.
Si può parlare di diversità culturale uscendo dalla coppia differenza/identità? Non soltanto è possibile ma anche necessario. L’apparato concettuale di cui ci si serve, si sa, non è mai neutro. “La differenza mira a una definizione, quindi a un’identità. Essa è uno strumento di classificazione e ordinamento (rangement), che dispone gli elementi attraverso la distinzione di identità differenti” (F.Jullien, Alterità, 2018).
Il riconoscimento delle differenze culturali non costituisce un’alternativa al ripiegamento identitario in auge in Europa. Essendo l’identificazione il suo naturale sbocco, la comparazione non fa altro che rinchiudere ogni cultura entro i confini della sua specificità, della sua unicità. La chiusura, a sua volta, richiama la difesa da ciò che gli è estraneo, che è diverso da sé. C’è un testo famoso pubblicato negli Stati Uniti nel 1996,” Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale”, scritto dal politologo Samuel P. Huntington, che è divenuto un classico di geopolitica. Ebbene in quel testo l’autore individua a livello planetario in base a distinzioni di progenie, religione, lingua, storia, valori, costumi e istituzioni, le sei maggiori civiltà contemporanee: Occidentale, Islamica, Sinica, Giapponese, Indù, Latinoamericana. La rilevazione delle differenze lo conduce ad ipotizzare un futuro contraddistinto da scontri di civiltà già in atto, a suo avviso, nel momento in cui scrive. Scontri non più basati su ragioni ideologiche o economiche ma su differenze culturali.
Questa profezia che diventerà per i media la chiave di lettura degli episodi terroristici definiti “di matrice islamica”, sembra portare alla luce, suo malgrado, il lato implicito dell’apparato concettuale che poggia sulla coppia differenze/identità. Differenza e identità istituiscono un rapporto circolare in virtù del quale una richiama l’altra. Non a caso sempre lo stesso politologo, partito dal riconoscimento di un mondo popolato da tanti aggregati culturali differenti, invita l’Occidente a considerarsi una civiltà fra le tante e a rinunciare a pretese universalistiche per limitarsi a difendere entro i propri confini la propria identità. Di fatto questa auspicata tensione isolazionista trova un riscontro nell’attuale politica statunitense contraddistinta da iniziative protezionistiche e da una minore propensione all’interventismo militare, quello del “portiamo la democrazia in casa vostra”.
Ovunque si rivendichi il riconoscimento di differenze si proclama l’esistenza di un’identità negata. Cosicché l’identità nazionale è, a sua volta, minacciata da identità a carattere regionale, quelle di minoranze culturali dotate di una propria lingua e tradizione. Quando il Front National urla: “La Francia ai francesi!”, gli occitani potrebbero controbattere: “l’Occitania agli occitani”, i bretoni: “la Bretagna ai bretoni”, i corsi: “La Corsica ai corsi” e così via.
Come uscire dal circolo vizioso della coppia differenza/identità? Il filosofo francese François Jullien propone di adottare al suo posto il binomio scarti/risorse (F. Jullien, 2018). Lo scarto non procede per distinzioni finalizzate alla definizione di tipologie e/o identità che presuppongono una sostanza soggiacente ad esse. Lo scarto indica una distanza all’interno della quale si dischiude lo spazio del tra come inter-spazio esplorativo in cui diviene possibile far dialogare due culture, in cui diviene possibile incontrare l’alterità. Ogni termine del confronto resta in uno stato di tensione nei confronti dell’altro. Quanto più inintelligibile appare un’altra cultura dal punto di vista della nostra cultura, tanto più saranno feconde le possibilità di esplorazione che si apriranno. Jullien parla nella duplice veste di filosofo e sinologo. Allo studio degli scarti tra il pensiero europeo e quello cinese ha consacrato buona parte della sua riflessione. La considerazione di una cultura così lontana dalla nostra, quale quella della Cina, consente di adottare un punto di vista esterno rispetto all’Europa, di osservare il nostro pensiero da una prospettiva che è innanzitutto connotata da uno scarto linguistico. La lingua cinese non appartiene alla famiglia indoeuropea e la scrittura cinese non è alfabetica ma ideogrammatica.
Nelle sue opere Jullien ha preso in considerazione diversi concetti della cultura europea quali: la causalità, la libertà, la volontà, la conoscenza, la verità ecc. (Jullien, 2017), sottoponendoli tutti allo sguardo della Cina e cercando al contempo di individuare i diversi modi con cui il pensiero cinese ha approcciato nella sua cornice culturale tali concetti denotandoli e connotandoli in modo divaricante rispetto alla nostra cornice culturale. Il fascino di una cultura altra, la sua fecondità direbbe Jullien, consiste proprio in ciò che d’impensabile per noi (con il nostro armamentario concettuale) vi è in essa e che rimane inintelligibile sino a quando ci ostiniamo a cercare somiglianze e corrispondenze.
L’adozione del concetto di scarto ci consente di uscire dalla prospettiva identitaria in quanto ciò che fa emergere di una cultura non è un’identità composta da specifici e immobili tratti distintivi bensì le sue risorse. Due culture diverse poste l’una di fronte all’altra, negli scarti che le distanziano, nello spazio vuoto (il tra) che si dischiude fra di loro ritrovano la possibilità d’interrogarsi a vicenda e di trarre da questa interrogazione un reciproco vantaggio. In questo senso si può parlare di risorse delle culture. Naturalmente non si tratta di mettere a confronto culture diverse per farle competere fra loro in nome della verità e stabilire di conseguenza una qualche forma di primato una su l’altra. Affinché una cultura possa dispiegarsi come insieme di risorse per un’altra cultura deve sostare in quel tra che le consente di non cedere alla tentazione di assimilare l’altra cultura a sé o, all’opposto, di lasciarsi assimilare all’altra. L’inter-spazio che divide due culture è uno spazio creativo che rimane aperto ad ulteriori elaborazioni e al tempo stesso, uno spazio di tensione in cui le culture coinvolte tentano di rendersi reciprocamente intelligibili.
La coppia scarti/risorse non esaurisce le sue potenzialità conoscitive nel confronto tra culture diverse, essa opera anche nel contesto di una medesima cultura. Jullien , ad esempio, si chiede in quale protagonista della cultura francese dovrebbe maggiormente riconoscersi la Francia: in La Fontaine o in Rimbaud, in Descartes o in André Breton? Non più nell’uno che nell’altro perché è proprio nello scarto tra di essi, nella tensione che si genera tra di loro che risiede la fecondità di una cultura intesa come insieme di risorse. È grazie allo spazio del tra, nello scarto che si apre fra i termini di un confronto che ognuno di essi può scoprirsi e comprendersi meglio grazie all’altro. Cosicché: “è perfino possibile comprendere La Fontaine a partire da Rimbaud e Descartes a partire da Breton. Lo scarto aperto da Rimbaud fa rivivere (risaltare) La Fontaine, lo tira fuori dalla banalità della nostra lettura scontata (scolastica) che tende al luogo comune: fa scoprire la sua inventiva. La Fontaine, riscoperto grazie allo scarto con Rimbaud, recupera la sua singolarità e anche la sua bizzarria” (Jullien, L’identità culturale non esiste, 2018).
L’eterogeneità, il carattere plurale delle culture sono ciò che emerge allorché al loro interno rileviamo gli scarti che le costituiscono e che c’impediscono di adottare la nozione di ‘identità’ per definirle e immortalarle in un’immagine univoca.
Può avere allora un senso parlare di difesa di una cultura? No, se lo si fa ricorrendo all’armamentario identitario e per affermare l’idea di conservazione e di protezione di una cultura. Si, se significa valorizzare la fecondità di una cultura attivando e sfruttando le sue risorse. Risorse che non sono proprietà di nessuno e che in quanto tali non possono essere oggetto di una rivendicazione di appartenenza. Oltretutto le risorse non hanno il carattere “esclusivo” dei valori. Questi chiedono di schierarsi, esigono approvazione o disapprovazione. Si può aderire a questi o a quei valori così come li si può combattere. I valori implicano scelte che si escludono l’un l’altra, “se sono ateo, non posso essere religioso”. (Jullien, L’identità culturale non esiste, 2018). Comportano un atto di fede (religiosa o ideologica che sia) difficile da giustificare in base a un fondamento. I valori ci rinchiudono nella logica dell’identificazione culturale. Le risorse invece non richiedono adesione, non si inalberano come vessilli, non si escludono a vicenda bensì si alimentano a vicenda. Inoltre esse non sono qualcosa di acquisito ma di continuamente generato dal possibile dialogo tra le culture.
ll dialogo che verrà
Alla base della ricerca del dialogo tra culture diverse prevale il desiderio di trovare un fondamento comune. Che si tratti di un’operazione rischiosa lo si comprende se pensiamo al tentativo portato avanti da alcuni Paesi (Italia, Polonia e Irlanda), accompagnato dalle ripetute sollecitazioni di Giovanni Paolo II, d’inserire nel preambolo della Costituzione Europea un esplicito riferimento alle sue presunte «radici cristiane». Come si sa, quest’immagine arboricola dell’Europa non poté affermarsi anche perché il progetto di Costituzione Europea fallì per la contrarietà di alcuni Paesi e successivamente nel 2007 si firmò il Trattato di Lisbona il cui preambolo richiama in senso generico l’ispirazione «alle eredità culturali, religiose e umanistiche dell’Europa».
È evidente che la ricerca di un’identità europea non poteva che portarci in un vicolo cieco. Insistere sul fondamento comune delle «radici cristiane» significa inabissare, occultare altre determinazioni culturali. Che farne della laicità insita nel razionalismo, dell’âge des lumières che influenzò storicamente buona parte dell’Europa nonché del retaggio di antiche culture pagane, greco-romana compresa, delle “incursioni” culturali del Medio Oriente nel Mediterraneo? La storia è fatta da e di contaminazioni che si amalgamano in inedite configurazioni. L’Europa va cercata e valorizzata proprio negli scarti che si istituiscono tra influenze e culture diverse, nelle tensioni che tra di loro rimangono aperte e che si prestano a nuove forme di pensiero. Naturalmente questo vale non soltanto a livello europeo ma anche, e a maggior ragione, su scala planetaria. La ricerca di una sintesi delle culture non può che portare ad una diluizione o ad una cancellazione degli scarti culturali a favore di una fittizia dimensione comune costruita sull’individuazione di un elemento minimale.
È il caso dell’Unesco che nella ricerca di un’ etica globale è pervenuta alla conclusione che tutte le concezioni morali e tutte le tradizioni religiose presenti nel pianeta aspirano alla pace. Una forma di convergenza superficiale che elude gli aspetti singolari di ogni cultura e ci precipita nella “banalità dei truismi” (Jullien, L’identità culturale non esiste, 2018).
D’altra parte anche sul piano della comunicazione interculturale l’eventuale adozione del globish (l'inglese semplificato composto da un lessico ridotto a ca. 1.500 vocaboli) non rappresenterebbe altro che una cancellazione delle feconde diversità culturali inscritte nelle lingue. In ogni caso un confronto che dovesse realizzarsi sul terreno di un’unica lingua sarebbe inficiato in partenza perché ogni cultura dovrebbe rinunciare a quello strumento che meglio consente di articolare il proprio pensiero e che è costituito appunto dalla propria lingua. Oltretutto bisogna considerare che il dialogo tra le culture, oggi spesso evocato, non è storicamente “innocente”. L’Occidente ha cominciato a parlarne quando si è reso conto che non poteva più imporre con la forza il suo universalismo.
La stessa Dichiarazione universale dei Diritti Umani porta con sé il segno di un ‘universale’ poco condiviso se è vero che quando Eleanor Roosevelt organizzò nel febbraio 1947 il primo incontro per la sua stesura un confuciano cinese e un tomista libanese si misero a dibattere sulle basi filosofiche e metafisiche dei diritti. Il riconoscimento da entrambe le parti di questo disaccordo finì paradossalmente per diventare il punto da cui muovere i primi passi. Cosicché si rinunciò a cercare un fondamento comune ai diritti umani che giustificasse la loro universalità e si riuscì a stendere un testo finale che individuava, più pragmaticamente, un catalogo di diritti e di libertà inviolabili che ottenne il consenso di 48 dei 58 membri delle Nazioni Unite.
La Dichiarazione, per quanto si fregi dell’attributo di ‘universale’, porta con sé i segni evidenti della strutturazione storica del pensiero occidentale europeo. I fondamenti su cui poggiano i diritti, per quanto non dichiarati, coincidono con postulati enunciati dal pensiero europeo primo fra tutti quello di una natura umana universale comune a tutti i popoli. Postulato che comporta come presupposto che tale natura umana sia conoscibile attraverso quello strumento della conoscenza che il pensiero europeo ha definito ‘ragione’ (cfr. R. Panikkar).
Rispetto alla Dichiarazione va altresì osservato che, sul piano pragmatico, l’“universale” che sino ad oggi si è più realizzato è stato quello della sua trasgressione ad ogni latitudine. Ragioni politiche naturalmente piuttosto che teoretiche. Tuttavia se africani e arabi hanno ritenuto opportuno farsi la ‘loro’ Carta dei diritti è perché l’“universale” proposto dalla Dichiarazione dei diritti umani non appare così transculturale come si vorrebbe.
Il dialogo tra le culture deve sganciarsi da quella ricerca del simile, del minimo comun denominatore che finisce per mortificare le singolarità e che di fatto produce una qualche forma di assoggettamento alla visione occidentale. Occorre piuttosto puntare sulle spaesanti dissomiglianze interculturali che consentono di creare uno spazio di intelligenza condivisa, un’intelligibilità delle culture. Con il concetto di intelligenza condivisa s’intende la possibilità che ogni cultura e ogni persona hanno di rendere intelligibili nella propria lingua gli scarti che emergono dal confronto con un’altra lingua e un’altra cultura.
La traduzione diventa quindi la metodica interculturale che poggiando sul riconoscimento e lo sfruttamento degli scarti come risorse consente, da una parte, di interdire processi di assimilazione-riduzione delle altre culture alla nostra e, dall’altra, di ri-pensare la propria cultura attraverso un processo di de-categorizzazione e ri-categorizzazione del proprio pensiero. Soltanto l’adozione di un punto di vista esterno, come, ad esempio, quello cinese esplorato da Jullien, è in grado di favorire il dialogo culturale in quanto ci permette di uscire dalle cornici culturali di cui siamo parte.
Allo scarto tra la nozione occidentale di “paesaggio” e quella cinese il cui ideogramma che la designa è composto da montagna-acqua o da rocce-nuvole in accordo con la costruzione cinese di enunciati che pongono ogni cosa in relazione al suo opposto (qui: solido/liquido, solido/aereo), il filosofo francese ha dedicato un intero libro dimostrando quanto feconda possa risultare l’apertura ad una cultura totalmente altra rispetto alla nostra, come possa renderci più consapevoli del “luogo” da cui parliamo, da cui enunciamo concetti e, al tempo stesso, metterci in movimento verso una trasformazione del nostro pensiero: “il mio punto di vista sulle culture, come filosofo, si domanda che cosa le culture possano significare come risorse (ressources),ossia come possano servirmi a pensare, come possano contribuire all’esplorazione del pensabile e alla valorizzazione del perturbante.” (Jullien, Alterità, 2018)
La posizione di Jullien si pone in una prospettiva di conoscenza. Una scelta che può apparire ‘accademica’. Eppure, per quanto possa sembrare astratta e lontana dalla nostra esperienza quotidiana, essa offre una chiave di lettura delle diversità culturali e un possibile approccio al dialogo interculturale. Si può obiettare che la Cina di Jullien è quella tutta compresa (o compressa) nel pensiero cinese tradizionale e che non fa i conti con il generale carattere ibrido che oggi vanno assumendo le diverse culture, cinese inclusa, a causa dell’influenza esercitata dall’Occidente.
Tuttavia dacché il processo (progetto?) di occidentalizzazione del mondo è ben lungi dal realizzarsi e le diversità rimangono ancora sul tappeto delle relazioni internazionali, tale approccio può servire proprio a contrastare il progressivo processo di uniformazione culturale in atto che innesta, per reazione, rivendicazioni identitarie e conseguenti nuovi nazionalismi. Reazioni da cui non è immune anche la Cina stessa dove si vanno diffondendo teorie sulla sinità basate sull’idea d’innatismo culturale, sul ripristino di una cultura sinogrammatica radicata nel pensiero, nel sangue e nell’inconscio collettivo cinesi. “Si va affermando così sempre più l'idea di un carattere ineffabile della cultura che appare come inscritta nella natura: la dimensione culturale fuoriesce dall'intelligibile e non viene più ritenuta condivisibile attraverso un'intelligenza comune. Il lavoro del dialogo viene abbandonato e si favorisce immancabilmente il ritorno nazionalista: le nozioni di "centralità" cinese, di "spirito cinese", o di "valori asiatici" si rinchiudono in identità settarie, identitarie, che vengono ritenute depositarie di una tradizione immutabile e, allo stesso tempo di un’irriducibile originalità.” (Jullien, 2010).
Il ruolo che un approccio basato sulla scoperta e l’uso fecondo degli scarti culturali come risorse può svolgere non si limita al contrasto di queste forme d’identitarismo in quanto può avere anche una ricaduta su una paziente e costante riformulazione della nozione di ‘universale’ sottesa ai molteplici documenti internazionali che si occupano di diritti. Si tratta di un processo di revisione che va rinnovato incessantemente e che non prevede una meta finale da raggiungere essendo l’‘universale’ un ‘motore regolativo’ dei rapporti internazionali piuttosto che un traguardo da raggiungere una volta per tutte.
La responsabilità di tradurre sul piano politico ed educativo la proposta di Jullien spetterà a chi vorrà raccogliere la sfida da lui lanciata e questo dipenderà da quanta presa e diffusione negli anni a venire essa avrà nell’ambito del dibattito politico e culturale.
Maurizio Bettini, Radici – Tradizioni,identità, memoria (2016).
Samuel P. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, (2000).
François Jullien:
- L’universale e il comune (2010).
- Essere o vivere (2016).
- Vivere di paesaggio (2017).
- L’identità culturale non esiste (2018).
- Alterità (2018).
Diritti umani:
Raimon Panikkar: La nozione dei diritti dell’uomo è un concetto occidentale?, Diogene,n.120, 1982.
Andrea Rigon, I diritti umani tra universalismo e relativismo:
https://www.juragentium.org/topics/wlgo/it/rigon.htm