Mentre le stagioni teatrali si susseguono con regolarità canonica, esponendo le loro merci-spettacoli indifferenti al passare degli anni e al mutare dei consumi, la “stagione” del teatro1, quella primavera prolungatasi per qualche decennio (dai Sessanta a buona parte degli Ottanta), è finita ormai da un pezzo portando via con sé ogni fioritura e trasformandosi in una natura morta appesa nel libro della Memoria.
La morta stagione s'è portata via anche il “teatro”2 e quel che è restato è lo spettacolo svuotato d'ogni profondità, privato di una qualsiasi tensione verticale.
Meglio ancora, il teatro che conta si è riempito di presenze che dell'antico mestiere e dell'appena tramontata passione e vocazione non sanno nulla.
Non che non sopravvivano vetuste tracce di quel che fu, tradizionale o di ricerca che sia, ma a far rumore e a richiamare l'attenzione, fregiandosi del nome di teatro, sono altre imprese, altri personaggi.
I palcoscenici sono invasi da giornalisti, intellettuali, filosofi, psicanalisti con monologhi o letture farciti di immagini e video, intramezzati da stacchi musicali, con un décor minimo: una poltrona, una sedia, una specie di scrittoio e poco altro. “Attori” a completo digiuno di “teatro”, tutt'al più dotati di personale verve. Un'onda che sta riversandosi sulle scene appropriandosi indebitamente di un'arte che nemmeno tanti anni fa ambiva a proporsi come “totale” (arte di tutte le arti)3.
Dal capo opposto, alla base del “fare teatro”, assistiamo a un proliferare nelle scuole di iniziative genericamente chiamate “teatro”, autoprodotte, che nulla hanno a che fare con i tradizionali laboratori teatrali in corso ormai da diversi decenni.
Nell’un caso e nell’altro, che pur non essendo ancora dominanti tuttavia segnano un preoccupante orientamento in atto, si compie un’azione efferata: la riduzione del teatro (e conseguentemente della teatralità) a mero contenitore al pari di un qualsiasi altro spazio, scelto in virtù delle sue nobili vestigia, di quell’“aura” che, sebbene spenta da più di un secolo, nel pourparler mondano ancora si lascia respirare.
La promiscuità (la convivenza tra ciò che è ancora – timidamente - teatro e ciò che ne porta solo il nome) contamina, così come un trend, quando impresso da un movimento culturale dominante, si propaga da semplice tendenza minoritaria al punto da imporsi come modello omologante; perciò prima che sia troppo tardi, prima che la stagione che stiamo vivendo si affermi come l’ultima stagione del teatro, è necessario avviare una riflessione, mettere in campo (per chi ha forze e necessità per farlo) una resistenza, rinnovare lo statuto del teatro, non per tornare indietro, ma per tirare le somme di quel che fu la sua primavera e andare avanti.
I nuovi mattatori
Non contenti della platea mediatica già ampiamente a loro disposizione, da alcuni anni, sempre più frequentemente, giornalisti e intellettuali di fama hanno preso a calcare le scene, spacciando per spettacoli teatrali i loro monologhi impegnati - corredati di proiezioni e magari accompagnati da qualche musicista dal vivo - che fino a ieri avremmo semplicemente chiamato conferenze o pubblici interventi, in qualche caso comizi.
Cosa è successo al teatro perché ciò sia stato possibile senza che nessun addetto ai lavori si mobilitasse per segnalare questo arrogante debordamento fuori dei confini assegnati a ciascuno, questa invasione che depaupera l’arte teatrale, e d’un sol colpo cancella un secolo e più di ricerche e macerazioni artistiche e personali volte a sottrare il teatro al vortice maciullante del consumo culturale di massa?
E cosa ha reso giornalisti e intellettuali di vario genere arditi a tal punto da credere di poter impunemente abbracciare un’arte, servirsene ai propri scopi, non conoscendone la teoria e la pratica, passando allegramente sopra la propria ignoranza di un mestiere che i più apprendono con fatica e dedizione in anni di studio e sacrifici?
Da più di un decennio s’è instaurato un processo inverso a quello in auge nell’ultimo scorcio dello scorso secolo, quando erano gli attori a reclamare un ruolo sociale, ad imporre la loro legge e la loro competenza tecnica come base per esprimersi con autorità, per essere ascoltati anche nei contesti diversi dal proprio, per essere interpellati, al pari di filosofi e sociologi, sulle cose del mondo. Ora sembrano tornare quell’interdizione e quella marginalizzazione – seppure non esplicite – che sono state all’origine del mestiere dell’attore: il buffone che rallegra il “sovrano” di turno, il saltimbanco che allieta i convivi altolocati (forse per questo l’unica categoria di attori con un residuo carisma sono i comici?). Mentre le faccende più serie, i messaggi più pensosi, le riflessioni degne di ascolto, l’auctoritas da cui si riconosce un’élite sono affidati ad una nuova categoria di “mattatori” trasferiti direttamente dalle scrivanie, insieme ai loro tablet, sulle tavole dei palcoscenici per sentenziare e divulgare, per ammaestrare e svelare verità nascoste.
È il trionfo del Logos sul corpo e sui corpi, di un logos minimo ed egocentrico che pretende di attribuire di nuovo alla parola, all’astratta ragione, all’esposizione frontale discorsiva il privilegio di farsi vettore principale di ogni comunicazione, contro la lezione dei Maestri della scena e del teatro 4 che lungo tutto il secolo breve si sono affannati a creare una pedagogia fondata sul primato del corpo dell’attore, sulla verità delle pulsioni psicofisiche.
Non è l’opinabilità dei discorsi e delle asserzioni contenute negli spettacoli dei nuovi mattatori la pietra dello scandalo, essa è scontata e non farebbe rumore se restasse ancorata alle pagine di un giornale o nelle poltrone di un talk televisivo, è piuttosto la scelta del “medium” teatrale la bestemmia che indigna.
Qui si rovescia l’antico, comprovato assioma, ed è “il messaggio che fa il medium”, riducendolo ai minimi termini, spogliandolo delle sue stratificazioni e complessità, appiattendolo alla monodimensione di semplice “mezzo” di comunicazione orizzontale: dal palco alla platea, per linea diretta, senza voli in cielo, né discese agli inferi.
La scuola che si fa teatro
I laboratori teatrali nella scuola non sono una novità, ma l’eredità di un passato denso di esperienze anche importanti e significative per la scuola e per il teatro. Tuttavia ciò che oggi sempre più va prendendo piede è un fenomeno parallelo, che pur nutrendosi dei sottoprodotti della stagione dei laboratori condotti direttamente dalla gente di teatro, se ne affranca assumendo la metafora teatrale in proprio e vestendo di teatro ogni iniziativa intra o extrascolastica che sia.
La domanda è: in una siffatta autoproduzione di eventi denominati con superficiale leggerezza teatro, cosa c’è davvero di radicalmente teatrale?
Il sospetto è che in tutti questi casi, per lo più allestiti in fretta e affidati all’opera volenterosa, ma nella maggioranza dei casi incompetente, di studenti e insegnanti che si improvvisano filodrammatici, il teatro funga da semplice forma cui si fa ricorso per rendere più fruibili contenuti altrimenti di difficile assimilazione. Un rivestimento nobile, vagamente artistico, adottato nelle sue forme più ovvie e banali, così come la vulgata pop lo tramanda: un misto di recitazione enfatica, di qualche tocco di colore: un costume di scena, una luce, gesti o movimenti scenici per lo più didascalici, tesi ad “illustrare” il testo.
Del resto non ci si dovrebbe meravigliare: in una società nella quale merito e competenza, studio e ricerca non sono più di moda, chiunque può improvvisare il teatro; basta aver intravisto o sentito dire, magari leggiucchiato qualcosa di teatrale ed ecco che il gioco è fatto.
Di fronte alla teatralizzazione scolastica appena descritta viene da dubitare dell’efficacia e della radicalità delle esperienze condotte dai cosiddetti esperti in decenni di sperimentazione. È possibile che abbiano lasciato e lascino un’idea così vaga e approssimativa del teatro? Forse è a causa della mancata istituzionalizzazione di quelle esperienze? Di un rigore rimasto effimero, di passaggio, costretto a riproporsi di anno in anno come fosse sempre la prima volta? O forse è il frutto di una “colonizzazione selvaggia”, non regolata, senza selezione, che ha confuso professionalità e dilettantismo (nel senso peggiore del termine), metodo e approssimazione, processi di conoscenza-creazione e semplici attività integrativo-ricreative?
Partito con l’intenzione di cambiare la scuola, il teatro5 ha finito con l’essere cambiato dalla scuola, o meglio ricondotto a ragione, cioè a come era prima delle grandi rivoluzioni degli anni Sessanta-Settanta: un contenitore vuoto, un artificio retorico atto a veicolare abbellendolo (si fa per dire) un messaggio che resta ancora una volta il tramite di un logos (sempre minuscolo) cui spetta ogni primato, assoggettando il corpo, trasformandolo in un abito che non solo non fa il monaco, ma nemmeno induce ad alcuno slancio ascetico-conoscitivo.
La verticalità del teatro
L’arte, compresa quella teatrale, ha un suo specifico, una sua peculiarità: è verticale.
È un veicolo che si muove lungo un asse verticale affondando le sue radici nel corpo e irradiandole, una volta rese sottili, nei cieli della conoscenza.
L’unità corpo-mente (asse centrale del teatro riformato-rivoluzionato6) regge qualsiasi atto “artistico”: è questo ciò che dovrebbe riflettersi in ogni performance teatrale e forgiare ogni pedagogia. Spogliato di qualsiasi attributo esteriore (che sia il costume, l’illuminazione, il trucco, il décor, il personaggio, persino il testo) il teatro nella sua francescana povertà è una strada di conoscenza, di relazione autentica tra gli uomini, tutt’altro che una comunicazione orizzontale. Una strada impervia e ardua da percorrere, che sale e scende e di nuovo sale, una linea verticale appunto, che richiede disciplina e rigore, resistenza e ostinazione per approdare alla meta.
Purtroppo il panorama attuale non mostra nulla di tutto questo, gremito di presenze neomattatoriali, di stagioni ripetitive tra classici rivisitati e novità imbalsamate, di rare e isolate iniziative “sperimentali” tali da non costituire mai un arcipelago, di teatri nelle e per le scuole e di scuole che si vestono di teatro, l’arte teatrale langue, va estinguendosi, riducendosi da un lato ad un’appendice, dal vivo, del medium televisivo, dall’altro ad una proiezione, illustrata e movimentata, del Libro.
Così quella attuale rischia di essere l’ultima stagione del teatro o perlomeno un capolinea (una stazione definitiva) senza ripartenza.
1 Stagione non nel senso meteorologico o astronomico e nemmeno nel senso limitativo e transeunte legato al periodo di apertura annuale dei teatri, ma nel senso quasi etimologico di una sosta, una fermata (anche lunga) epocale e temporale. ⇑
2 Inteso etimologicamente come il luogo privilegiato del “vedere” e dell’”essere visti”, della relazione “viva e palpabile” tra attore e spettatore. ⇑
3 Un’ambizione che ha percorso tutto il Novecento: dagli sviluppi postumi della Gesamtkunstwerk wagneriana, l’'ideale di teatro in cui convergono musica, drammaturgia, danza, poesia, arti figurative, al fine di realizzare una perfetta somma delle diverse arti, ai progetti architettonici di Walter Gropius, alle sperimentazioni di Piscator, alle visioni ultrapittoriche di Kandinskij, fino all’elaborazione nella seconda parte del secolo scorso di un ‘”arte della performance” che attraversa e mette in scena tutte le arti. ⇑
4 Il riferimento è sia ai riformatori del primo Novecento: Stanislavskij, Craig, Copeau, Artaud, Brecht…, sia agli sperimentatori dell’ultimo Novecento: Brook, Beck e Malina, Grotowski, Barba, Kantor… ⇑
5 Basti ricordare le teorizzazioni e le iniziative dei primi “animatori teatrali” nella scuola e dintorni: Franco Passatore, Loredana Perissinotto, Giuliano Scabia etc. ⇑
6 Un’esperienza per tutte: la parabola rigorosa di Jerzy Grotowski: dal "teatro povero", dall’"attore santo", all’"arte come veicolo", all’"arte del Performer". Ad ogni tappa della ricerca un passo avanti nell’unità corpo-mente. ⇑