È uscito da poco l'ultimo scritto di Goffredo Fofi: L'oppio del popolo, un pamphlet contro la cultura, nelle sue varie forme, nella riduttiva accezione di "comunicazione" funzionale, nelle tesi di Fofi, a "servire" il potere, i poteri, con una vecchia parola che, nonostante tanto revisionismo intercorso dalla sua prima elaborazione, conserva intatta la sua validità: il "sistema". La Cultura al posto della Religione, ma con le stesse funzioni di addomesticare, inebetire, asservire, omologare.
Leggendolo, tutto di un fiato, così come del resto - credo - sia stato scritto, m'è venuta voglia non di recensirlo, ma di commentarlo, qui proprio su un blog, uno degli infidi strumenti di comunicazione più aborriti da Fofi, fidando sul carattere fondativo di questo blog: entrare nel flusso dominante andando controcorrente, essere voce plurale e nello stesso tempo minoritaria, "da pochi a pochi", giusto per citare un altro titolo fofiano.
L'acida, brutale e soprattutto schietta invettiva che emerge dal pamphlet contro la cultura, contro il sistema culturale che mischia televisione, giornalismo, arti dello spettacolo, letteratura, web, non può che essere condivisa. Del resto a rileggere molti dei post apparsi su questo blog: sullo strapotere della pubblicità, sul ruolo abnorme assunto dall'intreccio perverso tra stampa e televisione, sugli inganni del mondo digitale, sulla miseria aberrante della nuova (si fa per dire) politica di destra, sulla decadenza atavica delle sinistre, sul dilagare di un "narcisismo" individualista e nello stesso tempo di massa, sul trionfo finalmente totale e globale del consumismo senza scopo ecc., si può ritrovare una non superficiale consonanza con le tesi del nostro.
Tuttavia, alla fine dei conti e soprattutto della lettura, c'è qualcosa che non torna.
Procediamo con ordine e cominciamo dalla pars destruens.
Per chi ha vissuto sempre all'opposizione, anche dentro i movimenti di cui ha fatto parte: la sinistra extraparlamentare negli anni 70; il teatro di gruppo (di base, di ricerca, terzo o quarto che fosse) successivamente, le parole di Fofi contro quell'élite (tale non per meriti oggettivi, ma solo per l'uso spregiudicato dell'opportunismo e del carrierismo) che costituisce il sempre più vasto mondo degli addetti alla cultura asserviti alla conversione spettacolarista e distraente che il potere chiede, giungono non nuove, ma comunque liberatrici. Finalmente qualcuno ha il coraggio di far piazza pulita dei luoghi comuni con cui si autodefinisce una larga schiera di "operatori culturali" che si ergono a paladini di verità e libertà, proprio mentre contribuiscono a confondere e imbrigliare la massa coatta di fruitori, lettori, ascoltatori, spettatori che - volente o nolente - quotidianamente incappa in quella mediazione comunicativa che impedisce lo sbocciare di un qualsiasi pensiero critico o divergente e contemporaneamente una qualche forma di autocoscienza.
È, secondo Fofi, soprattutto quell’area culturale che fa riferimento alla cosiddetta cultura democratica, di sinistra e progressista ad essersi consegnata nelle mani del “sistema”, trasformandosi progressivamente da “pensiero critico” in ingranaggio manipolabile di una rete più vasta di quadri operativi addetti al di-vertimento permanente delle masse popolari, quando non addirittura in portavoce dei desiderata delle logiche del potere capitalistico.
Pertanto la “cultura” oggi svolge una sola funzione: distrarre, spingere al consumo.
“Si governa, nelle «democrazie», con la manipolazione delle coscienze, avendo a disposizione pressocché tutto ciò che può servire a farlo: la scuola d’ogni ordine e grado e in primis l’università, molto spesso la chiesa e le chiese, la stampa, il cinema, la televisione, la radio, l’editoria, lo sport e il tempo libero, Ryanair e il turismo, e per quel che riguarda i più mentalmente fragili, internet, i blog, i social, che più di ogni altro mezzo hanno il fine di illudere gli utenti, per l’appunto, di star pensando con la propria testa, nel mentre che si pensano idee e persino si vivono sentimenti che hanno ben poco di autonomo.” (pag.23)
Gli “utenti”, ovvero quella piccola media borghesia diffusa (classe ormai diventata unica, a parte i ricchi) che fruisce o subisce, ma più spesso aderisce entusiasticamente a questo stato di cose, sono proprio loro il problema. Perché oggi, non per un dato strutturale, ma per un effetto sovrastrutturale, non c’è più differenza tra alto e basso, tra chi comanda e chi è comandato, dal momento che l’illusione (capace di sostituirsi alla realtà), alimentata da un narcisismo e un individualismo di facciata, di pensare in proprio, di essere “padroni” di se stessi è dominante e nasconde l’asservimento globalizzato cui siamo giunti, rendendo quasi inattaccabile (perché invisibile) il sistema complesso che governa i destini del mondo.
“Ciò che è cambiato nelle società a cui apparteniamo è l’adesione di quasi tutti allo stato di cose vigente, l’assenza di ribellione e perlopiù, della coscienza stessa del dominio. […] Oggi si governa soprattutto attraverso la manipolazione del consenso…”(pp.37-38).
Questa orrenda distopia, già in atto, che non prevede un futuro se non nel prolungarsi ad libitum del presente, è realizzata proprio dalla cultura, attraverso le sue più diverse manifestazioni: ai massimi livelli, la pubblicità (e qui Fofi ci ricorda la definizione godardiana della pubblicità come il “fascismo del nostro tempo”), ai medi e minimi livelli attraverso il bombardamento informativo-comunicativo delle televisioni, attraverso le programmazioni culturali (sempre museali e festivaliere nello stesso tempo) degli assessorati alla cultura.
“La cultura ci assedia, e ci ruba e corrompe il respiro né più né meno dell’automobile, ed è altrettanto diffusa onnipresente micidiale. Troppa cultura è niente cultura, e allora è opportuno ristabilire le distinzioni di fondo.” (pag. 61)
E per Fofi l’unica distinzione disponibile è quella tra merce e arte. In ogni campo c’è la possibilità di distinguere tra ciò che investe le sue energie di comunicazione nell’alimentare la “commerciabilità” (leggi mercificazione) delle opere e ciò che, sottraendosi a questa logica, sa riaffermare “la sua dignità e la sua eccellenza in quello spazio dell’utopia concreta, immediata, che la sua diversità gli offre.” (pag. 62): l’arte in quanto non mercificabile, in quanto orgogliosa della sua differenza, di un’irriducibile alterità, della sua essenziale “gratuità”.
Purtroppo, come lo stesso Fofi ammette, si fa fatica a trovare esempi di “arte” così intesa, anche nelle cosiddette arti: il teatro, il cinema, la letteratura…; essi sono minoritari (il che per Fofi è tuttavia un pregio, un vanto, tutt’altro che un limite), sono pochi nomi che si contano sulle dita di due mani.
Allora il problema è proprio questo e, saltando le altre pur utili ed efficaci analisi sullo stato della cultura che nel pamphlet vengono esposte, a questo problema occorre dare una risposta, una soluzione.
Se è vero che siamo ridotti così male, e che l’ideologia dell’impegno non è più sufficiente a sostenere il nostro agire in un mondo siffatto, cosa ci resta da fare?
Qui si apre la pars costruens che, anche se riservata a poche pagine, tuttavia ne L’oppio del popolo non manca, è accennata, suggerita come risposta all’altrimenti inevitabile tentazione del nichilismo, della rassegnazione.
Una digressione: il nichilismo per chi ha vissuto molto e soprattutto è stato in prima linea tra gli anni sessanta e i giorni nostri, come l’autore del libro in questione, ed ha attraversato movimenti e minoranze di cui ha visto più spesso la sconfitta che la vittoria nei confronti del moloch del potere, è un sentiero quasi obbligato. È comprensibile, è un’esperienza che da Seneca in avanti e indietro, capita ai più: si guarda alle proprie spalle, ci si accorge che non c’è più uno scopo, che la situazione è deteriorata e che le armi a disposizione sono spuntate, che tutto quello che si è perseguito con ostinazione è svanito, ed ecco che l’unica risposta possibile sembra il nichilismo. Vediamo nero, siamo contro tutto e nello stesso tempo ci sentiamo impotenti: una negazione dei valori in cui abbiamo creduto, delle speranze che abbiamo coltivato è l’esito naturale. È dunque normale in queste condizioni essere tentati dal nichilismo. Oggi invece è più preoccupante constatare un “nichilismo passivo” (che solo raramente diventa attivo), come qualche anno fa ha rilevato Galimberti (cfr. “L’ospite inquietante” (2007) e “La parola ai giovani” (2018), nei giovani, in coloro che per forze, per necessità, persino biologica, dovrebbero farsi portatori di una nuova spinta verso il futuro, condita con la giusta dose di ribellione e di utopia.
Tuttavia Fofi, in un testo impregnato di pessimismo della ragione, non manca di appellarsi ad una residua, ostinata volontà di resistenza, che però non ha energie sufficienti per richiamare in campo la forza travolgente di un’utopia concreta e dunque di aspirare ad un pur minimo ottimismo. Ed è proprio su questo punto che s’inceppa il monologo-pamphlet, perché da un lato nega il ricorso all’utopia: “Soprattutto oggi, non è questione di inventarsi delle utopie: non è più il tempo delle utopie, il mondo va freneticamente in discesa e quali utopie positive ci possiamo immaginare?”, dall’altro ne evoca una non irrilevante facendo riferimento a Sant’Ignazio che manda per il mondo giovani preparati “a intervenire nella novità del tempo”, giovani attivi, “dalla parte del bene”, giovani (capitinianamente) “persuasi”, come “avanguardie di una nuova umanità e di una nuova convivenza, tra gli uomini e con le creature, tra l’ideale cristiano e quello socialista…”. Tra utopia e non-utopia, tra sogni e realtà, nello scontro definitivo tra pessimismo e ottimismo, tra ragione e volontà, Fofi alla fine sceglie di optare per la politica delle “minoranze attive”, richiamando grandi modelli appartenuti alla sua biografia e alla nostra storia: Dolci, Capitini, Don Milani, Gandhi addirittura, e appellandosi alla forza della disobbedienza civile. “Non basta non fare il male e non mentire, occorre anche non collaborare al male, con chi il male lo fa.” Giusto, ma non occorre forse anche e soprattutto fare il bene, coinvolgere una maggioranza - oggi passiva, di nuovo analfabeta e nel contempo piena di rancore e paura – nel fare il bene?
Perché la domanda completa è sì “che fare”, ma per quale scopo: per salvare se stessi dal naufragio del mondo, o ancora una volta, con la speranza disperata (memori della lezione di Benjamin: solo per chi non ha speranza ci è data la speranza) di chi non ha nulla da perdere, per salvare il mondo da se stesso e magari cambiarlo.
In questo caso essere minoranza che disobbedisce non basta e nemmeno tradurre i modelli in pratiche esemplari, minori ed extraistituzionali, è sufficiente. Del resto è qualcosa che è già stato fatto (la biografia di Fofi, tra impegno culturale e attivismo sociale, da sempre ne è un esempio) ed è qualcosa che è fallito insieme al velleitarismo rivoluzionario totalizzante e parallelamente al riformismo praticato dall’alto. Garantisce la nostra coscienza, ma non modifica le coscienze degli altri. Certo gli “individui e i piccoli gruppi” devono mobilitarsi, ma non per costruire isole disobbedienti di sopravvivenza, piuttosto per tracciare i confini più larghi di un arcipelago che contenga l’intero pianeta.
Ancora una volta bisogna partire dall’educazione e dalla scuola, occorre avere un progetto di neo-alfabetizzazione, cominciando dalla formazione degli insegnanti per arrivare ad una rivoluzione della scuola (pubblica in primis) che ponga al centro del suo essere la cura delle giovani generazioni, la loro crescita consapevole volta in direzione del fare il bene. E bisogna farlo, con tutte le forze a disposizione, dal di fuori e dal di dentro, da minoranza a minoranza, approfittando persino dei pronunciamenti di quel poco che resta della sinistra, la quale nei suoi pur vaghi programmi di governo, all’unanimità pone la scuola al primo posto.
Perché è vero che quando non resta più niente non basta rifugiarsi nelle minoranze, ma è necessario far risorgere la necessità di divenire maggioranza, nonostante (o forse proprio perché) questo oggi può sembrare un sogno impossibile. Un’utopia?
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