Il popolo non esiste, gli italiani nemmeno
Postato il 10 Settembre 2019, di Francesco Torchia
popolo

Popolo e italiani sono due parole ombrello, sotto di esse (intendendole magari con accezioni diverse) si riparano (da sempre, ma oggi con una frequenza insopportabile) politici e politologi, giornalisti e blogger.
Alcuni arrivano persino a farne la propria bandiera: la sventolano con marcata soddisfazione, ostentando una sicumera fastidiosa perché tanto arrogante quanto ignorante delle implicazioni storiche, culturali, sociali e politiche di quelle due parole.

Si pretende di parlare in nome del popolo, ad ogni piè sospinto si strombazza che il popolo è “sovrano” e che bisogna restituire la parola al popolo, oppure si ricorre alla volontà degli italiani, la quale coincide – guarda caso – con quella di chi parla, o si sostiene di operare per gli italiani, ponendo al primo posto gli italiani.
Insomma “popolo” e “italiani” sono parole che risuonano in bocca di ogni piccolo aspirante demagogo che si rispetti e che raramente sociologi e politologi avvertiti utilizzano nel loro lessico.

In verità il popolo e gli italiani non esistono, sono una entità virtuale spacciata per reale a fini di comodo, per far colpo su chi si crede popolo pur senza esserlo e su chi orgogliosamente si sente italiano pur essendo soltanto un abitante di un’area geografica denominata Italia.
“Popolo” è una parola dotata tutt’al più di risonanze letterarie che nella sua genericità trova spazio solo nelle evocazioni mitologiche e poetiche delle letterature pre-novecentesche, dove piuttosto che identità socio-politica di una classe di individui designa un’unità vaga, una moltitudine con accezioni sentimentali. Già nella letteratura dell’Ottocento i connotati del “popolo” dapprima si conformano, nelle visioni del romanticismo e dell’idealismo, alle prerogative dell’idea di “nazione”, e poi si sfaccettano nell’articolato complesso delle classi sociali (secondo la vulgata marxista e socialista), o più semplicemente assumono le fattezze di una parte: i diseredati (cfr. il popolo verghiano), le classi subalterne. Nel Novecento poi il popolo tornerà ad acquisire il valore mitico di un’astrazione pur rifrangendosi nell’orizzonte delle classi sociali così come la progressiva industrializzazione andrà definendole. Ma in ciascun autore, che si tratti dei “cafoni” (i braccianti di Fontamara di Silone), o dei contadini, muratori inurbati (Pratolini) o del sottoproletariato urbano (Pasolini), l’elemento mitizzante sarà sempre presente con forti valenze nella visione di un “popolo” portatore di una cultura propria e dotato di una capacità di riscossa e riscatto. Sarà poi proprio Pasolini, a partire dagli anni sessanta, a demistificare l’immagine di questo popolo puro e depositario di una vitalità sana, di una cultura alternativa, riscontrando l’avvio di quell’omologazione (che oggi vediamo trionfante) che delle classi subalterne fece una massa indistinta, irretita nelle dinamiche del consumismo: Altre mode / altri idoli, / la massa, non il popolo, ma massa / decisa a farsi corrompere / al mondo ora si affaccia, / e lo trasforma, a ogni schermo / a ogni video / si abbevera, orda pura che irrompe / con pura avidità, informe / desiderio di partecipare alla festa. / E s'assesta là dove il Nuovo Capitale vuole.
(P.P. Pasolini, in La religione del mio tempo, Milano, Garzanti, 1961).
operai Fuori della metafora letteraria, oggi, la parola popolo non significa più niente, è soltanto un vuoto significante senza significato. Risuona solo nei discorsi di piccoli e ignoranti arruffapopoli di destra, ma non ha un referente sociale, rimbomba e produce un effetto eclatante, ma è solo un rumore che confonde, dà l’aria di una pretesa legittimazione totalitaria e totalizzante, nasconde una banale verità: il popolo che viene evocato è solo una parte minoritaria dell’intera popolazione italiana.
Questo è il populismo, non una valorizzazione socio-politica che restituisce sovranità ai cittadini, ma una menzogna che di un ceto, di una fazione, di un soggetto sociale, di una piccola parte fa un popolo, qualcosa che non esiste, ma che ha la presunzione di proporsi come valore assoluto e universalizzante.

Come si fa a parlare di popolo oggi, quando quella che negli anni cinquanta fu definita “cultura popolare” si è prima stemperata e corrotta nella cultura di massa e poi dispersa e liquefatta in un narcisismo collettivo impotente e senza scopo che illude ciascun individuo di essere un popolo proprio mentre lo spoglia di identità e di autonoma capacità di pensare, volere e agire.
Frammentazione e omogeneizzazione sono l’ossimoro che, agendo all’unisono, svapora i popoli e costituisce il liquido amniotico abitato dai corpi e dai soggetti, sempre in un’attesa disperata di venire alla luce.
Le classi si sono prima mescolate e poi dissolte, il ceto medio depauperizzato, i proletari abbrutiti e assorbiti dalla macchina culturale del consumo frustrato, ma pur sempre in cima ai valori di ciascuno, il sottoproletariato vive al confine tra criminalità (piccola e grande, organizzata e no) e illegalità, quando non è semplicemente spinto ai margini, defraudato, sfruttato e abbandonato al proprio destino.
Oggi esistono solo i ricchi (pochi, pochissimi) e tutti gli altri, la massa dei consumatori in potenza: quelli che possono abbastanza, quelli che possono poco e quelli che non possono per niente, divisi dal potere d’acquisto, ma uniti dallo stesso inebetimento valoriale e dallo stesso diktat che al sillogismo cartesiano sostituisce il più post-moderno: consumo dunque sono. Così, subissate nel mare del non-essere, le moltitudini (altro che i mitici popoli) giacciono incoscienti, relegate ad una condizione di non-esistenza.
In questo panorama così sconfortante richiamarsi ad un popolo, farsi paladini di un popolo è solo un trucco per demagoghi, un imbroglio che ha lo scopo di imporre come totalità unificante quella che è semplicemente una fazione, una ristretta cerchia di fan e di elettori, con l’intento di trascinare dalla propria parte anche il resto della popolazione scambiando i propri interessi per quelli generali.
Così, sfruttando il nome di un popolo che non esiste, approfittando di una maggioranza elettorale (che in realtà è una minoranza un po’ più consistente delle altre), si pretendono “pieni poteri”, dichiarando che finalmente il popolo sarà sovrano e soprattutto che la propria volontà è quella del popolo, in realtà governando avendo sostituito un’oligarchia ad un’altra.
È una storia che – mutatis mutandis - abbiamo già conosciuto. È la storia delle dittature, dei populismi plebiscitari, molto più pericolosi in quanto approdati al potere attraverso una pseudo legittimazione elettorale. Qualcuno oggi le ha chiamate democrature.
massa Non diversamente il sostantivo “italiani”, utilizzato parimenti a sproposito, è un’indicazione talmente generica da non significare nulla. Ancora una volta sono maldestri capetti di destra a farne un uso scorretto, nel tentativo di ubriacare le folle, di esaltarle in nome di un’identità supposta e posticcia che non riconosce differenze, che esclude ed emargina. Ma chi sono gli italiani, esistono davvero come identità nazionale, come sentiment generale?
Con d’azegliana memoria, riconosciamo l’Italia unita come Stato da quasi centosessant’anni, ma non vediamo ancora gli italiani, ovvero una massa di cittadini uniti e orgogliosi di una comune identità, da nord a sud, indipendentemente da origini, storie, tradizioni, lingue, bisogni e interessi che piuttosto che unire, dividono. Come se non ci fosse di mezzo l’insoluto problema della questione meridionale, come se il brigantaggio non fosse mai esistito, come se il palermitano e il milanese avessero identità di vedute e modelli culturali condivisi. Campanilismo, regionalismo, eredità di una divisione e frammentazione secolare, ancora oggi impediscono agli italiani di sentirsi davvero tali. E del resto, questa condizione piuttosto che un limite è un valore, tiene lontano il fanatismo nazionalista (che invece ammorba altre nazioni europee): se ben giocata valorizza le differenze, garantisce reciprocità e scambio, arricchisce le identità di ciascuno, abitua ad una multiculturalità, di cui oggi, in tempi di forti immigrazioni, abbiamo un enorme bisogno per superare paure, insicurezze e diffidenze (queste davvero comuni al di là delle differenze) che la stessa parola “italiani”, pur essendo una palese menzogna, fomenta e radicalizza. Purtroppo finora nessuno si è preoccupato se non di cancellare le differenze, ignorandole o reprimendole, fingendo nelle parate istituzionali, o nelle occasioni sportive nazionali un’unità nell’essere e nel sentire che non esiste. Nessuno, a livello di governanti, ha pensato di mettere in circolo le differenze, senza negarle, ma accogliendole sotto un sentimento comune di cittadinanza, protette da un ordine costituzionale che, pur esistente, è ignoto o ignorato dai più.

Perciò, parlare di popolo, di italiani, di popolo italiano, è un obbrobrio, un malcostume che quando non mente in aperta malafede, ha la colpa di semplificare, di ridurre la molteplicità ad unità coatta, di ignorare la realtà, di evocare un’identità di setta che separa i “noi” dai “loro”, aprendo di fatto una sorta di guerra permanente tra gli uni e gli altri. Dovrebbe essere messo al bando dal lessico politico, bisognerebbe invece imporre (anche ai politici di bassa levatura) un linguaggio più appropriato, non mistificatorio. Così i reali interessi, di status, di classe, di rango, di appartenenza storica e culturale verrebbero alla luce, mostrando chiaramente le differenze in campo (chi sta con i poveri e chi sta con i ricchi… per dirla in modo schietto), evitando che qualcuno, giocando sporco, si erga a rappresentante di una totalità inesistente, chiamandosi fuori dalla concreta dialettica politica.
Per fare questo sarebbe necessario che giornalisti onesti e intellettuali piuttosto che assumere, anche inconsapevolmente, il gergo della cattiva politica, si facessero paladini di una lingua scientifica e non ideologica, capace di distinguere e scendere nei dettagli.

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