Utopia oggi è un concetto che insieme a distopia e retrotopia è oggetto di analisi storica e scientifica nell'ambito della filosofia e delle scienze della politica.
È dunque un'astrazione, un'idea che non ha potere politico diretto, ma una semplice rilevanza, in contrapposizione appunto alla distopia e di recente alla retrotopia (come è noto introdotta da Bauman nell'ultimo suo scritto).
Non è stato sempre così. Io ricordo un tempo, neanche tanto lontano, in cui si mangiava pane e utopia, in cui la propria vita era vissuta in una proiezione continua nel "dover essere" che poi era tutt'uno con il desiderio di un'altra vita, il sogno di un cambiamento radicale. Ho conosciuto una generazione (i cui sopravvissuti, ieri "apocalittici", oggi quasi tutti perfettamente "integrati") che si è battuta contro la realtà in nome di un'utopia, di un "impossibile" magari dai contorni confusi, in qualche caso addirittura dai contenuti distorti, ma non per questo meno concreto.
Il percorso attraverso il quale è avvenuto questo ritorno all'antico, questa ritirata nei confini della teoria scientifica e nello stesso tempo della letteratura fantascientifica, è stato rapido e progressivo. Si è verificato nell'arco di pochi anni. Già dalla metà degli anni Settanta il progetto utopistico ha cominciato a tingersi di fosco per poi presto precipitare, negli ultimi anni del decennio, in una nera distopia.
Cinquant’anni fa, nel 1969, Herbert Marcuse pubblicava un libretto “Saggio sulla liberazione” il cui sottotitolo recitava: ”dall’uomo ad una dimensione all’utopia”…, sempre nel 1969 era in travagliata gestazione il film di Michelangelo Antonioni “Zabriskie point” (che poi sarebbe uscito nelle sale nel 1970)…, ancora nel 1969, nel mese di Agosto, si celebrava, pur nel fango, tra qualche contestazione e non poche ironie, il Festival di Woodstock…, nel 1969 ancora risuonava il motto del maggio francese “l’immaginazione al potere” e in Italia nel corso dell’autunno caldo si tentava una congiunzione tra movimento operaio e movimento studentesco.
L’anno dopo avevo già letto il saggio di Marcuse che aveva fatto proprio il motto del maggio, vedevo Zabriskie point, ascoltavo la colonna sonora di Woodstock e assistevo da studente medio impegnato nel movimento al repentino fallimento dell’utopistica unione tra movimenti e all’avvio di quella strategia della tensione (condita di stragi, sulle quali non è mai stata fatta chiarezza giudiziaria definitiva) che segnava l’inizio del volgersi in distopia della spinta “utopistica” che aveva caratterizzato soprattutto i giovani del movimento studentesco in quell’ultimo scorcio di anni Sessanta. E tuttavia, per me e per non pochi altri, tutti eretici e non allineati sulle posizioni standard della contestazione, scarsamente libertaria e tutta incentrata sulle tesi marxiste nelle varianti operaiste, leniniste, maoiste, trotzkiste, persino staliniste, origine di una miriade di gruppuscoli in perenne competizione tra loro e con il resto dei movimenti di opposizione (tipo anarchici, hippies, fricchettoni e pacifisti tout court), per noi la parola utopia era ancora un fare concreto, non un arido concetto della storia della filosofia politica, ma una pratica, una dialettica di liberazione da perseguire individualmente e collettivamente, seguendo l’ispirazione delle parole di Marcuse, con in mente le immagini della “love scene” e di quella delle esplosioni del film di Antonioni e nel cuore e nel corpo le noti vibranti della musica di Woodstock.
Sì, Marcuse all’epoca fu poco ascoltato, forse perché dai lontani Stati Uniti vedeva cose di cui noi europei non avevamo ancora contezza, e in seguito alla sua morte (dieci anni dopo) per lo più dimenticato, ma la forza e l’originalità delle sue idee oggi è più viva che mai; certo il film di Antonioni per i puristi del cinema era discutibile: ingenuo e presuntuoso insieme, ma quelle immagini sono indelebili e sono una traccia precisa nell’immaginazione della forma “artistica” dell’utopia, unione di potenza creatrice e di violenza distruttiva; sicuramente Woodstock fu un affare, un business, nell’organizzarlo ci furono inevitabili compromessi, ma la musica di Richie Evans, dei Santana, dei Creedence, di Janis Joplin, dei Canned Heat, di Crosby, Stills, Nash & Young… fu un ottimo viatico sulla strada della “liberazione”.
E poi c’era il teatro: quello del Living, una comunità vivente di teatranti, tutta impegnata a saggiare pillole di utopia e a provare a contagiare il proprio pubblico e c’era il Teatro laboratorio di Jerzy Grotowski che tra il ’69 e il ’70, smetteva di fare spettacoli e apriva la stagione del parateatro, un teatro non teatrale aperto alla partecipazione del pubblico con in testa l’utopia di smettere di “recitare” anche nella vita e di provare ad essere autentici e sinceri.
Ecco in quegli anni “utopia” era una parola che s’incarnava in azioni concrete.
Nel 1969 Herbert Marcuse metteva in discussione la costruzione del socialismo secondo le coordinate classiche, pur restando nell’alveo della teoria critica marxiana, ma di stampo “scuola di Francoforte”, perché vedeva con chiarezza l’obsolescenza della classe operaia americana (cui presto si sarebbero omologate le sorelle d’Europa), la perdita dell’automatismo della sua funzione rivoluzionaria, l’allontanarsi di una matura coscienza di classe:
“La trasformazione radicale di un sistema sociale dipende tuttora dalla classe che costituisce la base umana del processo produttivo. Nei paesi a capitalismo avanzato, questa è la classe operaia. I mutamenti intervenuti nella composizione di questa classe, e il fatto che sia stata largamente integrata nel sistema, alterano il ruolo politico attuale della classe operaia, non quello potenziale. Classe rivoluzionaria «in sé» ma non «per sé», oggettivamente ma non soggettivamente, la sua radicalizzazione dipenderà da forze catalizzatrici poste al di fuori di essa”. (Saggio sulla liberazione, pag.67)
E puntualizzava:
“La cosiddetta economia dei consumi e la politica del capitalismo azionario hanno creato nell’uomo una seconda natura, che lo lega libidinamente e aggressivamente alla forma della merce. Il bisogno di possedere, di consumare, di adoperare, di rinnovare costantemente gli apparecchi, i ritrovati, gli strumenti, i motori offerti e imposti alla gente, di usare questi beni anche a rischio della propria distruzione è diventato un bisogno “biologico” nel senso appena definito. In tal modo la seconda natura dell’uomo milita contro qualsiasi cambiamento che possa scalzare o addirittura abolire questa dipendenza dell’uomo da un mercato sempre più strabocchevole di mercanzie – di abolire l’esistenza quale consumatore che si consuma nel comprare e nel vendere. I bisogni generati da questo sistema sono pertanto bisogni eminentemente conservatori, stabilizzatori: la controrivoluzione ancorata nella struttura istintuale.” (pg.23/24)
Per infine proporre un progetto di cambiamento radicale: una rivoluzione “biologica” ed “estetica” per condurre la quale non sarebbe bastata la classe operaia, già abbastanza addomesticata e integrata, ma sarebbe servito l’apporto dei giovani del ceto medio in rivolta, dei neri dei ghetti, del lumpenproletariat, degli oppressi del terzo mondo…
Già in quegli anni le tesi di Marcuse furono tacciate di idealismo, per essere presto tralasciate, ma ahimè a scorno degli ortodossi della dottrina marxista, furono confermate dalle analisi di Baudrillard che prima nel suo “Sistema degli oggetti” (1968) e successivamente nella “Società dei consumi” (1976) scandagliò in profondità la forza avvincente e persuasiva subliminale del consumismo e del suo tramite: la pubblicità, individuando nel valore simbolico-segnico degli oggetti di consumo la capacità di inventare bisogni non naturali e di abolire il valore d’uso delle merci.
L’assoggettamento di larghi strati del corpo sociale a questa “seconda natura” secondo la formula di Marcuse, è stata poi provata ampiamente dalle tesi di Michel Foucault, ne "La microfisica del potere" (1977).
Secondo Foucault il potere si esercita, si infiltra...
"non è qualcosa che si divide tra coloro che lo possiedono o coloro che lo detengono esclusivamente e coloro che non lo hanno o lo subiscono. Il potere deve essere analizzato come qualcosa che circola, o meglio come qualcosa che funziona solo a catena. Non è mai localizzato qui o lì, non è mai nelle mani di alcuni, non è mai appropriato come una ricchezza o un bene. Il potere funziona, si esercita attraverso un'organizzazione reticolare"...
è microfisico, si estende cioè in tutte le direzioni locali ed elementari delle strutture sociali ed economiche, penetra nei corpi e li conforma a sé. Perciò occorre opporsi all'esistente, all'omologazione, al conformismo, alla massificazione, bisogna resistere, contrastare ciò che in prima istanza appare naturale e scontato. Il primo stadio è davvero non accettarsi per quel che siamo, adoperarsi per soppiantare la “seconda natura”, puntare ad un uomo nuovo, non frutto di un’ennesima distopica ingegneria sociale. E infine, saltando molte altre approfondite analisi, arriviamo a Zygmunt Bauman che ci descrive, sia pure in modo non sistematico, un presente senza nome immerso nella melassa della globalizzazione, dove il singolo lontano da ogni comunità che lo rassicuri, ha solo un orizzonte e un habitat che è il consumo, nel quale come in un mare senza fondo individualisticamente e edonisticamente può nuotare ma senza una missione comune.
“Il terreno su cui poggiano le nostre prospettive di vita è notoriamente instabile, come sono instabili i nostri posti di lavoro e le società che li offrono, i nostri partner e le nostre reti di amicizie, la posizione di cui godiamo nella società in generale e l'autostima e la fiducia in noi stessi che ne conseguono. Il "progresso", un tempo la manifestazione più estrema dell'ottimismo radicale e promessa di felicità universalmente condivisa e duratura, si è spostato all'altra estremità dell'asse delle aspettative, connotata da distopia e fatalismo: adesso "progresso" sta ad indicare la minaccia di un cambiamento inesorabile e ineludibile che invece di promettere pace e sollievo non preannuncia altro che crisi e affanni continui, senza un attimo di tregua.” (da Modus vivendi, Laterza, 2008)
Oggi lo spazio concreto per una “dialettica di liberazione” sembra chiuso definitivamente, eppure se si riprende il filo delle tesi fin qui elencate, possiamo ancora uscire dalla condizione di vittime che contribuiscono e collaborano al loro stesso controllo.
“Possiamo profetizzare che, a meno di essere imbrigliata e addomesticata, la nostra globalizzazione negativa, che oscilla tra il togliere la sicurezza a chi è libero e offrire sicurezza sotto forma di illibertà, renderà la catastrofe ineluttabile. Se non si formula questa profezia, e se non la si prende sul serio, l'umanità ha poche speranze di renderla evitabile. L'unico modo davvero promettente di iniziare una terapia contro la crescente paura che finisce per renderci invalidi è reciderne le radici: poiché l'unico modo davvero promettente di continuarla richiede che si affronti il compito di recidere quelle radici. Il secolo che viene può essere un'epoca di catastrofe definitiva. O può essere un'epoca in cui si stringerà e si darà vita a un nuovo patto tra intellettuali e popolo, inteso ormai come umanità. Speriamo di poter ancora scegliere tra questi due futuri.” (Z. Bauman, Dentro la globalizzazione).
Possiamo dare di nuovo un volto umano all’“utopia”. Non rassegnarsi alla sua ritirata nell’ordine delle astrazioni e recuperarne la spinta concreta, pur in questi tempi tutt’altro che rivoluzionari.
Le utopie degli anni 60/70 furono uccise e affossate da chi non volle credere a Marcuse e s’intestardì sull’assunto marxista della classe operaia come unica classe rivoluzionaria. Leninisti, maoisti, trotzkisti e stalinisti ebbero la meglio, scelsero la strada della lotta di classe, giorno per giorno, inseguendo una chimerica “dittatura del proletariato” snobbarono cultura ed educazione, non si occuparono della necessità di una profonda rivoluzione “biologica”: non furono compagni che sbagliavano, ma completamente in torto, trascinarono la rivolta in braccio ai gruppi clandestini, al terrorismo, e alle sue nere distopie.
Il capitalismo, il sistema di potere globale, misto di repressione e tolleranza, senza l’aiuto di quelle forze che si proclamavano rivoluzionarie ed invece erano conservatrici, non avrebbe vinto, ancora oggi la battaglia sarebbe aperta.
Il progetto marcusiano per quanto incompleto fosse non prefigurava “modelli” da costruire, ma una “dialettica”, un processo da intraprendere, tenendo conto, senza forzature ideologiche, delle forze in campo. Non isole di Utopia, o città del sole, non falansteri, non costruzioni escatologiche e nemmeno regni di libertà contrapposti alle servitù del lavoro alienato (tutti sogni destinati a chiudersi nell’occhio del grande fratello orwelliano), ma un progetto concreto di lotta da prolungare in lavoro di educazione e cambiamento dell’uomo a partire da sé. Un “grande rifiuto” per rifarsi e rifare il mondo.
Oggi che le forze sono poche e per lo più disperse, oggi che le classi senza coscienza vagano allo sbando, oggi che la paura e la rabbia indistinta nutrono l’animo degli uomini spingendoli a destra, oggi che il lavoro manca e una grande rivoluzione tecnologica (l’automazione che profetizzava Marcuse) sta prospettando un mondo forse libero, ma sempre più povero e asservito, oggi scienza e tecnologia, con i loro progressi, possono essere affrancate dal dominio del capitale finanziario e sovranazionale e contribuire finalmente al progresso della civiltà umana; oggi c’è più che mai il bisogno di un ritorno a Marcuse, non per una “decrescita felice”, per una regressione ad una civiltà preindustriale, ma per progredire verso nuove libertà.
Solidarietà, cooperazione, comunità e soprattutto educazione sono le parole chiave per una concreta utopia che sia dialettica di liberazione.
Perché il processo era ed è lungo, è un work in progress, non è la conquista del palazzo d’inverno (per poi che fare?), è una lenta trasformazione, è una rieducazione dell’uomo, oltre la prima e la seconda natura, oltre i bisogni indotti e persino quelli supposti naturali che non necessariamente sono buoni (dimentichiamo il mito del “buon selvaggio”).
L’utopia non è un affare per giovani, che dura una stagione e poi passa, ciascuno ha un ruolo da svolgere, anche chi crede di aver già perso la sua battaglia e si è chiuso nel cinismo disincantato di chi ha già dato. Gli anziani devono sognare ancora e soprattutto insegnare, gli adulti devono praticare e lottare, i giovani avere visioni desideri e potere d’immaginazione per preparare il futuro.
Anziché guardare sempre indietro o dilaniarsi sull’impotenza dell’oggi, è di questo che dovrebbe occuparsi una nuova sinistra che volesse essere davvero tale.