La repubblica dei sondaggi
Postato il 22 Ottobre 2019, di Francesco Torchia
sondaggi

Il panopticon di Bentham, l’occhio diffuso del grande fratello di Orwell sono strumenti di controllo che fanno ridere rispetto alla sofisticata e diversificata rete di sorveglianza, rilevamento, pedinamento e marcamento a uomo che subiamo oggi.
I paradossi sono due: il primo che questa rete è invisibile, non imposta da alcuna istituzione carceraria o totalitaria, e dunque non è percepita come un attentato alla nostra libertà; il secondo è che ciò avviene in un regime di dichiarata protezione della privacy. Ogni passo che compiamo, ogni impegno che prendiamo, ogni acquisto, ogni contratto, tutto è protetto dalla privacy. Mettiamo una firma, spuntando alcune voci apparentemente innocue e via, finiamo – all’opposto di quanto garantito - in database controllati non si sa da chi. Il nostro profilo di consumatore, di cittadino, tutto è in realtà a disposizione di scrupolosi addetti pronti a offrici o fornirci ciò di cui abbiamo bisogno prima ancora di saperlo. E nel frattempo noi festeggiamo la nostra supposta identità protetta da un’ingarbugliata rete di leggi che sanciscono l’assoluta priorità valoriale della libertà individuale (garanzia peraltro di invisibilità di manovra degli evasori fiscali, piccoli e grandi).
Orgogliosi di questa promessa “mistica” per niente confermata dalla pratica, anzi contraddetta proprio nei suoi fondamenti, in realtà - divorati da un dilagante narcisismo di facciata – siamo noi stessi a mettere in piazza le nostre intimità, i nostri sentimenti, le opinioni, i pensieri più profondi in un’orgia da peep show oggi incarnato dalle varie piattaforme social che impazzano sulla rete.
Alla fine non ci interessa nulla se siamo controllati, perlustrati fino in fondo, con incoscienza ci esponiamo all’altrui curiosità, illudendoci di essere qualcuno, inorgogliendoci per le nostre piccole imprese esibite, affidando i nostri sogni e bisogni all’occhio affilato di venditori malintenzionati. Perché allora meravigliarsi se poi siamo perseguitati ad ogni ora del giorno da qualcuno che vuole venderci qualcosa telefonicamente, come possiamo essere così ingenui da credere che l’aver lasciato tante tracce di noi stessi sulla rete non comporti conseguenze?
Difatti l’interiorità, i pensieri personali, i sentimenti profondi non esistono più, ogni cosa si è appiattita in un’esteriorità che vuole dire e mostrare tutto, ma che in realtà è solo menzogna, maschera diventata faccia, scambiabile con altre facce sul “libro delle facce” e sui suoi succedanei.

Come se non bastasse, da un paio di decenni con un’insistenza ossessiva siamo bersagliati dalla moda (che in verità è un vero e proprio business) dei sondaggi. Istituzionali o meno, di mercato o a sfondo politico i sondaggi penetrano nella nostra vita e pretendono di strapparci verità e convinzioni che noi stessi non siamo certi di avere, con la scusa di fornire un quadro preciso e trasparente di una popolazione, affinché qualcuno possa provvedere meglio ai suoi bisogni e desideri.
In questo caso se c’è imbroglio è doppio, perché non si tratta di consensi rubati a margine di un qualche contratto sottoscritto o dell’effetto di un’autocompiaciuta esposizione, ma di indagini all’apparenza “scientifiche”, dotate dei crismi della scienza statistica, basate su criteri inoppugnabili e oggettivi, finalizzate alla pura conoscenza e che in teoria lasciano anonimi gli intervistati.
Ma è davvero così? Prendiamo per esempio i sondaggi politici, quelli che ormai con parossistica scadenza settimanale ci informano circa le preferenze partitiche degli italiani.
In Italia il campione intervistato per realizzare un sondaggio varia da 500 a 1000 persone, ma va tenuto conto che in media circa l’80% degli intervistati rifiuta di rispondere, per cui il numero delle interviste telefoniche, su mobile e via internet, aumenta considerevolmente con un incremento sostanzioso del budget necessario per realizzare il sondaggio. Pertanto portare a termine un sondaggio alla settimana è un’impresa non sostenibile per tutti gli enti all’opera.
In tutto sui media italiani compaiono i sondaggi di più di una dozzina di società diverse. In Francia i principali istituti demoscopici sono soltanto tre. Negli Stati Uniti, i media fanno riferimento a poche grandi società internazionali ben disposte sia ad investire nei singoli sondaggi che nella ricerca di nuove tecniche. Se si esclude Ipsos, una multinazionale francese di notevoli dimensioni, gli altri istituti (Piepoli, EMG, SWG, Euromedia, Demos, Demopolis, Ixe ecc.) sono di piccola o media portata. È dunque credibile che a fronte dell’onerosità dei sondaggi e della frequenza con cui vengono proposti non tutte le ciambelle escano col buco e che quindi ci sia una certa italica “arte dell’arrangiarsi” nel far quadrare i conti.
A margine è significativo notare come l’italiano medio così ben disposto ad auto dichiararsi ed esibire in pubblico le sue più intime convinzioni, viceversa quando è interrogato diventi omertoso, scoprendo improvvisamente il bisogno di privacy e segretezza.
Fatto sta che già questa complicazione iniziale pregiudica in parte l’attendibilità dei rilevamenti statistici. Un altro fattore di cui tenere conto per la veridicità dei sondaggi è la ripartizione per quote percentuali rappresentative delle fasce di popolazione: età, genere, area geografica, titolo di studio; più sono le quote definite, più il campione sarà rappresentativo e il sondaggio preciso. Ma una rilevazione con molte quote è più difficile da realizzare, infatti ogni quota aggiunge un’ulteriore complicazione e implica un numero superiore di interviste. Conseguenza anche in questo caso, al meglio che vada, è che la rappresentatività raggiunge l’80% e per farla corrispondere all’obiettivo preposto si ricorre naturalmente ai giochetti matematici. Per queste ragioni la premessa che fanno gli enti sondaggistici è che c’è sempre un margine d’errore intorno al 3%.
A complicare la faccenda e a rendere più orientata la risposta dell’eventuale intervistato disponibile c’è poi il modello su cui sono conformate le domande che, essendo prescelte dal sondaggista e formulate a circolo chiuso, impediscono persino al più benintenzionato degli intervistati di esprimere un pensiero lontano dalla doxa e dal senso comune.
Altro fattore che influenza le risposte possibili è la presenza di un trend di opinioni che si manifesta con insistenza ripetitiva e ossessiva sui titoli di stampa, nelle battute dei talk show televisivi, nei tweet di tutti e nessuno, e che finisce col conformare un template cui ciascuno di noi si attiene, tirando fuori quel meglio di sé che sa di antico, cioè l’arte del copiare.
Considerati i flop in molte delle ultime elezioni politiche in diverse parti del mondo, flop dei sondaggi tradizionali, negli USA si sta sviluppando un altro metodo (se possibile ancora più pericoloso) che subordina le rilevazioni a emotional web analysis e sentiment analysis, ricavabili non attraverso il diretto coinvolgimento del cittadino, ma sulla rete nelle dichiarazioni e soprattutto dalle tracce emotive nei confronti di specifici oggetti/soggetti rilasciate da ciascuno di noi attraverso i social. Alla fine questa nuova metodologia ancora in evoluzione mette d’accordo committente e utente e si rivela al momento più attendibile.

La domanda finale allora è: nei paesi meno sviluppati digitalmente (vedi l’Italia) come mai c’è questa esplosione di sondaggi? La risposta è semplice: il sondaggio parte neutro, poi, essendo legato ad un ente televisivo o organo di stampa viene corredato dalle necessarie spiegazioni, speculazioni, elucubrazioni, viene filtrato, acquistando un valore diverso dall’originario, e infine commentato, volgarizzato e utilizzato dalla voce diretta dei politici interessati, diventa arma e strumento di manipolazione del consenso. Altro che popolo sovrano. Il suddito (popolo, cittadino, chiamatelo come volete) corre all’urna (si fa per dire) per confermare quanto gli ha suggerito il sondaggio predetto.
Ancora una volta è qui dimostrata la mutazione antropologica in atto che ci rende tutti un po’ replicanti e androidi cioè ripetitori di apprendimenti indotti, di prescrizioni innaturali divenute abitudinarie e dunque apparentemente innocue.

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